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(…)

Dietro il niente, il niente che Socrate ha rivelato essere, ma che non è quindi forse nulla più che di Socrate un’ennesima maschera, balena altro ancora, balena un altro Socrate ancora Un altro Socrate dentro un Socrate che è dentro Socrate. Come il sileno costruito dagli scultori che aperto rivela ben altro al suo interno cui già Alcibiade accenna paragonandolo a Socrate, come una matrioska Socrate si ribadisce atopico, indecifrato.

  • Giochi di coppie (con Socrate al centro)

Anche Agatone è stato però da Socrate chiamato in causa. Anche lui dovrà quindi scegliere. Ed esplicitamente, allontandandosi da Alcibiade e spostandosi a destra vicino a Socrate ora alla sua sinistra, col suo gesto la sua scelta sarà per Socrate.

Certo, forse lo fa per evitare – nel caso avesse scelto Alcibiade rimanendo al suo posto – di dover ora quindi egli fare, per la regola del convito che implica passare parola a destra, a sua volta elogio a Socrate. Ma Agatone è stanco, brillo. Scegliendo Socrate, inoltre, il tema scelto da Alcibiade (elogiare Socrate) non può aver seguito. Scegliendo Socrate, Agatone consente di ritornare là dove il convito era approdato, di tornare al gioco regolato del parlare d’amore (e non più di un individuo, Socrate)

Ma così é sempre Socrate che dunque resta al centro. Se il gioco deve ora riprendere toccherebbe inoltre a Socrate parlar di nuovo

  • La baraonda e il sonno

A questo punto il rito però bruscamente si interrompe e cessa.

Irrompono infatti d’improvviso molte altre persone, questa volta senza indugiare alla soglia, portando grande trambusto.

Senza più regola alcuna, a questo punto tutta l’alterità precedentemente espulsa, per consentire adeguato e iniziatico discorso d’amore nel rito del dire regolato, in questo modo dilaga portando confusione nella stanza ove Eros, elogiato addomesticato, aveva e ha steso il suo incanto.

Si beve allora moltissimo vino e il convito finisce, nel crollo infine di tutti nel sonno.

All’alba solo Agatone, Aristofane e Socrate discutono ancora, con Socrate che li convince di come siano lo stesso il tragico e il comico (alludendo anche in questo riferimento al comico ed al tragico a qualcosa in cui amore c’entra) finchè anche Agatone e Aristofane sono vinti dal sonno.

  • Socrate il sole, il vincitore solo

Vinti dal sonno, e a questo punto anche da Socrate che, unico, esce alla fine dalla stanza e se ne va all’aperto. A fare e essere, come sempre, Socrate. Il solito, atopico, Socrate.

Socrate, vincitore dunque.

Ma solo.

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(…)

Tolta la maschera, Socrate rivela il suo esser vuoto. Rivela che dietro le pose dell’amato (dietro le pose quindi di egli stesso Socrate) non c’è nulla più che niente.

Socrate tuttavia – narra ancora Alcibiade – prende ancora tempo. Sembra (o finge?) quasi oscillare se cedere all’amante o meno. Perciò dorme sì insieme ad Alcibiade, ma castamente; in un gesto di intimità sì e fiducia, certo, ma anche sprezzando le grazie di Alcibiade il bello, nella superiorità che lui Socrate il casto amato, sicuro e pure un po’ superbo, gode sull’accecato amante.

  • Punto cieco e scacco

Alcibiade, l’amante, è così paralizzato (ribadendo, anche in questo caso, l’essere Socrate, come si sa, torpedine), sta in un punto e in vicolo cieco, è in scacco.

Svalorizzato, ma insieme ammirato egli della natura temperante virile di Socrate, Alcibiade non può infatti avere l’amato nè allontanarsene nè aver motivo per recriminare (Socrate non bara, non è nulla più che sé stesso, maschera dietro la quale c’è nulla più che il niente che dichiara esplicitamente essere) o altro. Schiavo senza via d’uscita, Alcibiade constata l’invulnerabilità dell’amato, la forza casta e incorruttibile di Socrate.

Socrate è e si conferma tale: inscalfibile.

Si sa già infatti che più di tutti Socrate sa sopportare fatiche, freddo e fame; lo si sa capace di mangiare e bere a iosa senza conseguenze. Socrate è tenace, capace di fissarsi in un pensiero non demordendo nel ragionare finché non viene a capo di quanto lo assilla; autocontrollato sempre, perciò coraggioso come ha dimostrato quando soldato, ha sempre fredda perfetta consapevolezza della situazione che conseguentemente domina.

Socrate è inscalfibile. Inscalfibile anche, persino, dal desiderio. Sa resistere sempre, anche all’offerta della bellezza dei giovani corpi che pure, lo ha dimostrato, apprezza.

Sa resistere al desiderio. Cui Alcibiade invece cede.

  • Taumatòs

Ma a questo punto è Socrate, chiaramente amato non amante, che ci appare ancor più strano, atopico. E inquietante.

Nessuno è simile a Socrate – ce lo ha rivelato Alcibiade. Ma Alcibiade non sta solo constatando, come fa una qualsiasi amante con l’amato, che il suo amato non è simile a nessun altro. Alcibiade ci ha detto e mostrato che Socrate ha in sè stranezza in sè stessa incomparabile.

Socrate infatti suscita  “taumatòs“, e taumatòs è termine che indica sì “meraviglia“, ma rimanda pure alla strana sensazione di stupito senso di angoscia e inquietudine che sale a fronte dello sconosciuto, per l’imprevisto.

Socrate è infatti sì Sileno e satiro, dentro di cui trovi discorsi i soli ad avere misteriosa coerenza, i più divini, pieni di immagini di virtù, sulla più grande varietà di cose e su tutto ciò cui desidera tendere un uomo eccellente. Socrate – questo Socrate già per questo stupefacente – è questo.

Ma ci ha svelato pure, inquietando dunque, di esser niente.

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  • Se sono amici, fateli entrare!” (212d)

Nel “Simposio”, non appena Socrate ha terminato di riferire il discorso della sacerdotessa Diotima, svelata finalmente quindi in tal modo la completa e vera natura di Eros, prima che chiunque altro possa aggiungere qualcosa (e in particolare prima che Aristofane, che già si sta agitando e cerca di prender la parola, possa obiettare alcunché), si sente un gran rumore provenire dall’esterno e qualcuno picchiare con forza alla porta.

Se sono amici fateli entrare“, ordina Agatone, festeggiato padrone di casa.

  • Sulla soglia, Alcibiade

Alla porta è Alcibiade, accompagnato dai servi. Alcibiade che, del tutto intenzionalmente, non era stato invitato e che ora, invece, ciononostante chiede di entrare.

Che Alcibiade giunga amichevole non è perciò garantito. Ma ha bussato. E attende. Chiede perciò di entrare, ma non irrompe, non forza l’entrata.

In un istante, sospeso, Alcibiade attende.

Alcibiade dunque preme, ma in prima battuta se ne sta lì: sulla soglia, soglia inframezzo tra un dentro e un fuori.

Alcibiade viene dal fuori. Da lì si muove. Ma sulla soglia, per un attimo almeno, in sospensione sosta.

Nel confine, limite tra l’interno domestico (e quindi addomesticato) della casa e il fuori – fuori quindi dalle mura chiuse della stanza in cui la scena del discorso d’amore si è sino a quel momento in fondo pacatamente svolta – Alcibiade per un momento almeno attende.

Nell’istante in cui è ancora possibile la decisione se lasciare entrare o cacciare Alcibiade, l’intruso che – agghindato con nastri e incoronato di edera e viola – vuole, dice, entrare per “onorare Agatone, il più sapiente e il più bello“ è lì quale alterità. Alterità che incombe.

  • Ospite non invitato

L’equilibrio sospeso subito dopo però si spezza.

Il momento di sospensione nella dinamica scenica presto finisce: Alcibiade decide: entra. Senza più indugi varca la soglia. E dunque irrompe – in modo chiassoso, ospite non invitato nella scena finora luogo del simposio d’amore.

Ma se così impone il suo essere incluso tra i convenuti, non viene però cacciato. Nessuno tra i presenti obietta che egli non sia uno di loro: un (potenziale) amico dunque. E, lo si sa, un iniziato d’Amore.

Uno cioè che dal convito era stato escluso, ma che i convitati sanno bene non essere per niente un estraneo.

  • L’escluso. Ma chi è Alcibiade?

Agatone, perciò, seppure messo di fronte al fatto compiuto (Alcibiade è lì, è entrato) lo accoglie quale amico, convitato dunque anche lui al simposio. Amico non invitato, anzi inizialmente, e deliberatamente (Agatone non accampa scuse per non averlo chiamato), escluso dal gruppo. Ma che ora c’è, e con buona ragione, perché tutti sanno che alla brigata – chiusa nella stanza del simposio e isolata dentro il gioco della leggera ebbrezza e del regolato discorso su amore – manca Alcibiade.

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Bisogna avere un caos dentro di sè

per partorire una stella danzante

(Friedrich Nietzsche)

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  • Ritmi della persistenza dell’altro: il desiderio

Quando lo sguardo desiderante incrocia infatti lo sguardo dell’altro desiderato, e codesto altro è accogliente contraccambiante, in qualche modo il desiderio ottiene esaudimento possibile nel suggello della relazione che il desiderio alimenta. Il desiderio, riconosciuto e accolto dal desiderato disponentesi – secondo una dinamica identica correlativa – a sua volta come sguardo desiderante, produce l‘esaudimento di un desiderio reciproco.

Ma ciò avviene sempre nella saldatura di una relazione che resta inquietudine, in un compimento che non può che darsi inevitabilmente e sempre che in segni via via da decodificare e in dilazioni, fossero anche solo le dilazioni necessarie per dare il tempo necessario per le decodificazioni.

Anche nell’ottenimento, sempre perciò una distanza è ribadita, l‘oggetto del desiderio, nella sua libertà, resta sempre altro e può costantemente sfuggire alla presa. Perciò unico approdo del desiderio è solo la prossimità, dell’oggetto del desiderio si può avere solo cura e custodia, inevitabile è anche stare, pur nell’attivo darsi da fare almeno per lasciare aperto lo spazio al riconoscimento agognato, in attesa secondo impotenza.

Ciò che il desiderio attende (senza esigerlo, sennò sarebbe volontà di consumo) è in fondo quindi un dono. Ma un dono mai garantito, perché fondato sulla libertà dell’altrui desiderio che in quanto tale può sempre non corrispondere o volgersi altrove per cui, anche quando l’oggetto del desiderio è magari acquisito, non è mai acquisito una volta per tutte.

Anche nel caso in cui il desiderio non sia rivolto – come può anche essere come nel caso del richiamo del sacro – a un ente finito, ma sia teso a un intero nel desiderio di una fusione mistica; anche in questo caso l’intero non potrebbe che darsi inattinto dal desiderio. Nella fusione infatti il desiderio semplicemente non sarebbe, non sarebbe la relazione in cui esso consiste, non sarebbe attingente ma semplicemente cesserebbe di essere.

Ogni esaudimento definitivo e totale del desiderio è quindi impossibile e il desiderio non può che essere sempre ulteriore iterata rinnovata ricerca del compimento, di sempre altro compimento.

Anche nel desiderio è quindi sancita l’ineludibilità del ciclo: nel ritmo di un desiderio sempre riacceso, riavviato e ancora riavviato.

  • Ritmi incarnati del corpo sessuato

Anche nel suo incarnarsi (nel sesso) il desiderio ribadisce una ritmica.

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Bisogna avere un caos dentro di sè

per partorire una stella danzante

(Friedrich Nietzsche)

  • Ritmicamente

Ogni evento è un nodo entro un fluire su sfondi in cui si dispongono campi di forze. Secondo sequenze e sviluppi, intervalli e cesure il fluire del tutto si espone e dispone, scandito da punti d’avvio e conclusioni, pause, attese e irruzioni, arrivi e partenze. Ritmi.

Più o meno lentamente o velocemente, più o meno accelerati o dilatati, sospesi o frenetici, variano quindi gli spettacoli che ci avvincono e prendono, così come quelli che tediano.

Nel mutare di timbri e atmosfere, tutto in tal modo pulsa. Ritmicamente.

  • Cicli

I cicli celesti e delle stagioni, il ciclo delle età della vita, il ciclo solare nell’arco del giorno, il ciclo lunare (e il ciclo mestruale), il ciclo della fame e la sete, il ciclo della veglia e del sonno, il ciclo del consumo. del bisogno e del desiderio sono cicli della natura.

Ma anche le vicende umane, storiche, le società, la politica, l’economia, la stessa storia del pensiero evidenziano ritmi.

  • La danza

Nell’apertura si dispone perciò uno spettacolo le cui movenze è una danza.

Una danza nel ritmo che batte il suo tempo e le sue variazioni di tempi, dispiegando e suggellando in tal modo nello squadernarsi degli attimi le forme che appaiono e variano.

Tra le pieghe delle differenze, tra gli ambiti in cui il ritmo scandisce i suoi tempi – in questa danza – si può intravedere una legge. Della danza si possono decifrare le logiche

  • Dispendio e consumo.

L’esistenza si regge sul dispendio di energie e la loro ricostituzione costante.

Cicli biologici inducono perciò a un interagire col mondo volto al consumo, nell’assimilazione di oggetti che – focalizzati, avvicinati, afferrati, trasformati, frantumati, distrutti, negati – infine sono perciò col Sè fusi, in esso inglobati.

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  • Lavoro della scrittura del segno

Ogni qual volta un segno venga inciso e lasciato deposto con intenzione di offrirlo a un senso e a una decifrazione, i vari modi di lasciare segno (a partire dai primi segni ancestrali dipinti nelle grotte dagli uomini arcaici sino alle più disparate forme artistiche e culturali della contemporaneità) sono sempre modi di lasciare un segno.

Questo lasciare un segno è sempre, nei suoi vari modi, incisione di senso. Ossia scrittura. Scrittura che, nei suoi vari modi, va decifrata.

E ogni decifrazione, così come già ogni scrittura, chiedono azione, quindi lavoro, quindi fatica: la fatica innanzitutto di iscrivere il segno, la fatica poi di interpretarlo

Questo lavoro compiuto al fine di lasciare un segno, questo lavoro volto al fine di indurre decifrazione, il lavoro infine della decifrazione, tutta questa fatica è energia non pacificata, è inquietudine. Questa, l’inquietudine, è ciò che si convoglia nel deporre un significato.

Questa inquietudine e questa fatica chiedono essere spiegati, giustificati. Chiedono di quale ragione, quale emozione li ha motivati.

  • Esorcismi, narrazioni

Già nelle più antiche pitture rupestri, nelle più arcaiche forme di arte, i segni incisi si ipotizza siano lasciati a esprimere un’originaria inquietudine, quali esorcismo, auspicio, rito.

Strategie quindi di cura di ansie o paure tramite azioni che si dispongono come procedure che fanno da àncore per disporre un senso umano nel mondo e un controllo del mondo.

Anche disporre nel segno una narrazione a un certo punto diventa possibile. E diventa quindi possibile porre in certo ordine e concatenazione di segni anche l’espressione della vicenda di un sè.

Diventa possibile fissare ed esprimere una propria bio-grafia.

In questa possibilità è terapia.

  • Compulsioni

Questo gesto evoca, in-scrivendo in forma-scrittura, una struttura d’ordine dipanando parole che esprimono l’esperienza di un sé. In questa espressione strutturata una forma trova durata, assicurando, in questa durata, una, almeno relativa, salvezza di sé. 

Nella scrittura, una qualche forma di compulsività – come ogni compulsività espressione di un tentativo di controllare un’angoscia – insiste in un gesto iterato (l’incisione di segni pregni di significato), per quanto variato e modulato.

In questa modalità, la compulsività, in tal modo organizzata ordinata strutturata, richiede una disciplina e un’autodisciplina: disciplina nel doversi costringere, nella dilazione del desiderio e concentrazione su sè, entro la prassi precisa che rende eseguibile il segno che ha significato; autodisciplina nel dover realizzare quel governo di sè volto e attento al fare comprendere all’altro, nella dislocazione nel punto di vista di altri, ciò che si vuole indicare.

In questa modalità, la compulsività porta potenzialità di salute, nella misura in cui la salute è stare in sè stessi nell’apertura.

Nel progressivo venirci incontro degli spettacoli che via via sopraggiungono al nostro sguardo e al nostro esperire, non è infrequente però ci si ritrovi in un sostanziale disagio, più o meno profondo e più o meno sottile che sia. A questo disagio possono essere attribuiti i più differenti nomi. Può avere i più diversi modi e gradi. Ma sempre ha (anche) il senso della presa sgradita in una chiusura.

  • Terapie

La chiusura ci serra allora in una figura in cui persistiamo in modo non acquietato. Si ha il senso che il proprio riconoscimento manchi perché manca la dinamica che al riconoscimento è essenziale.

In questi frangenti, la scrittura può aprire una benefica distanza, che è la distanza dello specchio in cui essa scrittura consiste. La scrittura infatti distanzia da ciò che de-scrive. In questa distanza anche la chiusura è posta più in là. In tal modo la chiusura può venire forzata, dando abbrivio e poi consistenza a una grafia della vita, linfa e sangue alla mia bio-grafia così aperta all’espressione di cui la scrittura è veicolo.

Anche solo in ciò la scrittura è terapia.

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Bene e male …non sono altro che modi del pensare, ossia nozioni che noi ci formiamo in conseguenza del nostro confrontare le cose le une con le altre” (Spinoza, Ethica 4, prefazione)

In quanto una cosa s’accorda con la nostra natura, in tanto essa è necessariamente buona(Spinoza, Ethica, 4.31)

Un’opposizione

Le cose sul piano ontologico sono tutte semplicemente quel che sono, secondo la legge dell’identità/opposizione universale del positivo e del negativo, identità/opposizione di cui ogni ente – da essa determinato e costituito – è una specificazione.

L’opposizione universale positivo/negativo si individua cioè quindi in innumerevoli modi (ognuno dei quali identifica enti specifici disposti in opposizioni specifiche).

Tra i modi possibili dell’opposizione vi è anche l’opposizione di valore: l’opposizione bene/male. In questa opposizione disposti e identificati quali suoi poli, i significati bene e male sono in tal modo i segnaposti grazie ai quali il discorso sull’etica può incardinarsi.

Ma nulla più che incardinarsi.

Etichette

Il significato-bene e il significato-male – se ci si limita a una considerazione limitata a un punto di vista astrattamente logico – sono infatti solo e semplicemente due poli di un’opposizione che, per quanto distinta da ogni altra polarità oppositiva, pone gli opposti solo quali astrazioni formali, vuote di contenuto. Puri segnaposto appunto, in un’opposizione anch’essa quindi puramente formale, anch’essa vuota di contenuto concreto e specifico.

Finché si resta sul piano astrattamente logico, l’opposizione di valore etico non può perciò che porre i due termini opposti (il bene e il male) che quali pure e semplici etichette, disponibili di per sé a essere apposte potenzialmente a una qualsiasi cosa.

Corpo dell’etica: l’autocoscienza

Affinché “bene” e “male” assumano il concreto senso etico che loro conviene non è cioè sufficiente concepirli semplicemente quali poli di un’opposizione logica.

Finché la polarità oppositiva bene/male resta unopposizione soltanto logica è infatti semplicemente un’opposizione tra tante, la cui forma e le cui dinamiche non si distinguono sostanzialmente da una qualsiasi altra struttura oppositiva puramente logica.

Affinché i significati di bene e di male prendano lo spicco e il senso concreto che loro conviene in quanto significati etici ci vuole altro oltre il loro essere semplici etichette segnaposto.

Ci vuole anzi più di qualcos’altro. Ci vuole innanzitutto infatti l’ apparire di un’autocoscienza, di un ambito entro il quale i significati appaiano e siano saputi tali. Un’autocoscienza che poi non si limiti semplicemente ad accogliere l’apparire dei significati in gioco, ma che sia soprattutto un disporli (il bene e il male) in una valutazione. Laddove per la valutazione occorre che i segni bene e male siano posti in una relazione con altro da essi, valutazione nella quale i segni in cui bene e male consistono sono attribuiti ad altri ulteriori enti-segni (che stanno per cose, fatti, eventi…). Occorre cioè vi siano, inoltre, altri enti-segni coi quali i segnaposto bene e male vanno messi in relazione.

Nella relazione così istituita, da tale autocoscienza, tra singoli enti e i significati di bene e di male, dato un ente qualsiasi “x”, una volta posto in relazione a “bene” (o “male”), esso è così valutato eticamente e, conseguentemente, in quanto così investito di significato etico, è disponibile perciò ad essere perseguito o rifiutato.

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Fenomenologia

Delle cose, nell’immediatezza percettiva, si colgono aspetti. Il loro aspetto è il visibile. Ma la cosa, di cui vediamo l’aspetto, è ciò di cui l’aspetto è una parte. La cosa è anche altro.

La cosa ha lati nascosti. Se ne appare un aspetto, altri aspetti in quel mentre sono invisibili. L’esistenza di questi invisibili e il loro non apparire fa sì che l’apparire di un aspetto sia appunto un aspetto e non sia invece esso stesso la cosa.

Ogni evidenza si staglia su un orizzonte, che sempre la eccede. Come la fenomenologia husserliana ci insegna: l’evidenza si espone aperta all’emergere di sue evidenze ulteriori, in una protensione alla completa adeguazione all’oggetto.

Per questo nell’analisi fenomenologica, in un percorso in qualche modo a ritroso, il fenomeno arricchisce così via via il suo significato nel procedimento in cui al visibile e con il visibile emerge l’invisibile, nel costituire il reale apparire della cosa (il cui significato trova adeguata saturazione in questa inestricabile coesistenza di visibile e invisibile).

Nel nesso dello stesso: visibile ed invisibile

Nella coesistenza e il reciproco rimando di visibile ed invisibile coesistono anche presenza ed assenza.

Il visibile esibisce in presenza lati che rimandano agli altri lati attualmente invisibili e dunque attualmente assenti nella presenza visibile. Ma l’ineludibile nesso che in tal modo si pone tra presenza ed assenza (e tra saputo ed ignoto) fonda lo slancio verso sempre altre ulteriori esperienze.

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Nello spazio globale interconnesso della comunicazione planetaria dilagano, su schermi di dispositivi connessi, immagini.

Moltissime di queste immagini sono fotografie.

Rete, che tutto conserva

Fotografie, sempre di più sempre di più, si depositano così nella memoria di Big Data, accentuando la possibilità di conservare le immagini – possibilità che fin dalla sua nascita la fotografia comporta. Da quando la tecnica fotografica è stata inventata, fotografie a profusione sono state infatti scattate, prodotte, conservate. Ma si sono anche consunte, sono andate perdute, oppure distrutte.

Oggi – così parrebbe – la Rete tutto conserva.

Qui è un arcano

Forma di espressione artistica, pratica sociale di massa o puro mezzo tecnico per serbare memoria che sia, da quando è nata la fotografia attrae attenzione, affascina. E’ su ciò che fa leva la diffusione (online offline, oltre che onlife) sempre più vasta delle immagini grazie a cui – date le potenzialità della Rete – il potere ammaliante delle immagini fotografiche si espande.

Anche la più banale tra le fotografie tende – solo per il fatto di essere immagine fotografica – a richiamare attenzione. La forza dell’immagine – e dell’immagine fotografica in gran parte – è ciò che viene utilizzato per captare attenzione al mondo in cui dilagano immagini.

Ogni fotografia, ben riuscita o mal riuscita che sia, cela cioè – in quanto tale – un fascino che va decifrato.

Qui è un arcano.

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Nella sua “Conferenza sull’Etica” Wittgenstein ci propone esempi di proposizione etica.

Il primo esempio è: “Mi meraviglio per l’esistenza del mondo“.

Un secondo esempio è: “Sono assolutamente al sicuro, nulla può arrecarmi danno, qualsiasi cosa accada“.

***

Entrambe le espressioni sono da intendersi in senso assoluto e perciò etico, ossia da concepirsi senza alternativa eticamente possibile.

Se potrebbe cioè aver senso meravigliarsi – come in effetti anche accade – nel senso, perciò relativo, di stupirsi per qualcosa che è così invece che altrimenti; la meraviglia che ha invece a che fare con l’etica non può che scaturire a fronte del non darsi di un’alternativa equipossibile. La meraviglia è in questo caso, come dire, meraviglia assoluta: un meravigliarsi per il ritrovarsi in uno spazio logico che è in fondo quello del sempre vero, cioè del tautologico.

Una meraviglia quale stupore di accorgersi di essere là dove si è, aperti certo a un mondo ove tutto è contingente ma radicati peraltro in una dimensione che sta, oltre ogni alternativa e altra possibilità.

***

Oltre la contingenza è poi pure l’altra esperienza etica esemplare che Wittgenstein ci indica: quella di sentirsi al sicuro qualsiasi cosa stia capitando.

Anche questa proposizione è da intendersi in senso assoluto e non cioè nel senso che si sia al sicuro nel mentre si potrebbe non esserlo: questo riguarderebbe la contingenza del mondo, sarebbe usare la proposizione in senso relativo.

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Questo ci tocca

Una volta allocato, l’ospite (la malattia, il male di vivere) attrae così l’attenzione su sé nella persistenza dei segni che invia. Nella malattia del corpo ponendomi all’erta inchiodato in essa e in circospezione su sue ulteriori presenze. Nel male di vivere immergendomi nella sua densità.

Tutto questo ha a che fare col senso.

Non solo per l’urgenza e la difficoltà di trovare in questa intrusione che emerge nel suo essere me, nel suo essere già da sempre me, un senso. Ma anche per il concentrarsi dei sensi tutti nella nuova presenza, che richiama a sé innanzitutto dove si duole.

Nella malattia – che sia lesione del corpo o male dell’anima – questo “ci tocca”.

Specchio dell’anima

Il corpo si espone in superfici, pelle a fior di pelle che partisce – in interfaccia o in distanze – gli spazi con gli altri corpi.

Nel corpo l‘anima (qualunque cosa essa sia, anche fosse solo “parola per dire qualcosa del corpo”) così si espone, apparendo, nel mondo e alle altre anime.

Qui stanno le rivelazioni, al di qua di impenetrabili interiorità o inesperibili ulteriorità.

In questo senso il corpo tutto è quindi un volto: il volto dell’anima. Voltato (in primis nel viso) innanzitutto verso l’esterno, il corpo è però voltato anche verso dentro. Qui attinge il dolore o il piacere, in vibrazioni e con-tatti. Qui, nel riverbero dell’incontro con altro, si svelano i cuori, nella protensione o intensione dell’emozione.

L’emozione perciò, nella sua protensione, traspare inevitabilmente nel volto rivolto all’esterno, ove l’ospite (la malattia, il male di vivere) non può non trapelare.

Perciò, se si sta male, è difficile non farlo vedere.

Nel volto è lo specchio dell’anima.

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Cicatrici

L’altro, il negativo, la contraddizione, la scissione, appartengono dunque alla natura dello spirito. In questa scissione risiede la possibilità del dolore. E’ per questo che il dolore non è venuto nello spirito dall’esterno”

(G.W.Hegel)

….

Là dove un uomo può patire sofferenze, lì egli si trova realmente, là egli … ha anche amato, …là si trova realmente legato…a una prossimità…vissuta”

(Viktor von Weizsacher)

***

Sgraditi ospiti

La malattia, quando arriva, è ospite non invitato che giunge sì, ma – che sia male del corpo o dell’anima – giunge in realtà là dove sempre già abita.

La distruzione nel corpo che la malattia porta con sé è infatti già sempre in opera, è costante (anche la rigenerazione nel corpo è infatti un distruggere ciò che il neogenerato viene a sostituire) e ogni eventuale agente patogeno che si insinua nel corpo non è che un innesco che avvia trasformazione distruttiva che, già latente, semplicemente dilaga.

Analogamente la causa del vacillare disarmonico o della frattura di sé in cui la sofferenza mentale consiste si insinua facendo leva sulla costante inquietudine che spinge la mente – nelle sue fluttuazioni -sempre oltre, verso nuovi equilibri ma anche sempre possibili nuovi squilibri.

Quando si insediano quindi, quasi sempre silenti e senza preavviso, la malattia che si alloca all’interno del corpo o il male di vivere non sono perciò altro che forma (somatica o psicosomatica) che, alla maturazione del tempo debito all’occasione opportuna assegnata, null’altro in fondo fanno che sbocciare come sbocciano e sfioriscono i fiori ai loro tempi assegnati.

In tal modo il tempo della salute e della malattia (come in qualche modo della gioia e il dolore, della vita e la morte) – sotto il giogo di Ananke – vengono…appaiono… vanno…

Il rifiutato

Quando il male giunge, esso cioè in realtà era già lì. Semplicemente emerge.

In questa emersione sensibilizza – in un modo cui erano già predisposte – zone somatiche o realtà psichiche o esistenziali, prima poco o nulla avvertite. In queste zone disloca e in queste realtà pone in spicco – in forme diverse e gradienti di intensità differente – per lo più il dolore.

Questo dolore – perché questo è il dolore: il rifiutato – io lo rifiuto.

Ma in esso anche consisto.

Rifiutarlo, nel rifiutare il rifiuto, in realtà è rifiuto ulteriore: dolore aggiuntivo.

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images (2)Il compimento possibile

Nell’attesa sospesa in cui l’invocazione consiste, nella disponibilità all‘accoglimento del cenno dell’altro, desiderare non è solo pathos. Ma è anche attività. Già solo nel decifrare le tracce mandate dall’altro.

In questa attività, in questa dinamica, il compimento del desiderio è possibile. L’acme della meta raggiunta può essere toccata.

Se infatti l‘azione, volta in risposta al cenno dell’altro, trova risposta a sua volta da parte dell’altro cenni ulteriori provenienti dall’altro potranno ottenere decifrazione quali segni del desiderio che anima anche l’altro. Se poi l’altro (il desiderato) riconosce il desiderio che lo investe come desiderio e – quale sguardo a sua volta reciprocamente desiderante – così lo accoglie e ricambia, il desiderio può veder riconosciuto sé, raggiungendo in questo riconoscimento un compimento.

Il desiderare può così ottenere dall’altro il riconoscimento di sè e, per contraccolpo, la valorizzazione dell’essere a sua volta desiderato. In questa valorizzazione il desiderio vede riconosciuta e sancita così la sua natura, saturando e quindi ottenendo ciò che esso è (cioè il suo essere desiderio).

Per riconoscersi desideranti, ci si affida così (nel senso che ci si mette nelle mani altrui e nel senso che ci si fida) al riconoscimento altrui. Non potendo guardare lo sguardo che si è, l’unico esaudimento possibile del riconoscimento è, volgendosi all’altro, trovare uno sguardo ri-conoscente, rimandante l’esser sé della relazione in cui il desiderio consiste.

Nella possibilità che qui si apre, può essere anche che l’altro – avvolto a sua volta in una dinamica analoga – si esponga come a sua volta dischiudentesi anch’esso desiderante, a sua volta affidantesi.

Desiderante il me desiderante, può offrirsi all‘ottenimento cui il mio desiderio aspira.

Apertura della libertà

Esaudimento del desiderio sta quindi innanzitutto nella possibilità che l’altro rivolga a sua volta a me il suo desiderio, nel riconoscere il mio desiderio all’altro rivolto. In ciò è un compimento: mettere in pari i rispettivi desideri per quello che sono.

Per far ciò serve agire, alimentare relazione e avviare vicenda in specifica forma.

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L’assenza e la traccia. L’altrove presenza

Laddove vi è desiderio c’è – incisa in chi desidera – mancanza.

Vi ‘è inoltre assenza: quella dell’oggetto dal desiderio investito.

Ma se c’è assenza, dell’assente – l’oggetto del desiderio investito dall’intenzione in cui il desiderio consiste – deve esservi cenno, deve esservi traccia. Incisa in chi desidera è quindi una traccia che sancisce una mancanza, la mancanza che segna il soggetto del desiderio.

Senza di essi – il cenno, la traccia – non vi sarebbe nemmeno l’assenza. Ma la traccia accenna insieme anche a una presenza: la presenza dell’altro

Nella dinamica del desiderio non c’è dunque solo mancanza. Nella dinamica del desiderio deve essere inscritto anche qualcosa che c’è.

Deve essere infatti in gioco anche l’energia senza cui il desiderio si spegne. Ma non solo: l’energia, se c’è desiderio, deve essere inoltre alimentata orientata da qualcosa di altro ancora che a sua volta c’è: la traccia. La traccia che è rinvio, a sua volta, a qualcosa di altro ulteriore ancora, che anch’esso pure c’è: altra altrove presenza, che fa cenno di sé da altro luogo, altro da me.

Nelle mani dell’altro

Finché si desidera anche l’appagamento è assente. E’ altrove, non è qui ora. E’ sempre più in là: da venire.

Ma l’appagamento anelato – costitutivamente assente nel desiderio finché è desiderio – è agognato solo in quanto è in vista. Solo in quanto intravisto quale qualcosa che è stato, potrebbe essere, potrà essere presente si può fare desiderare.

Se è vero che l’oggetto del desiderio non può non essere pensato che altrove, tuttavia deve essere tale che da lì, là dove è in qualche modo esistente, ci dà sua notizia e ci lancia il suo cenno.

Perciò il desiderato non è solo un mio fantasma. Non è riducibile a allucinazione di un mio delirio. Non è mai solo mia rappresentazione.

E’ perciò che in qualche modo si fa desiderare di suo. Ha entità e una forza attrattiva sua propria.

E’ perciò che nel desiderio c’è arrischio, e non poco: la traccia dell’altro mi mette anche sempre nelle mani dell’altro, nelle mani di un altro.

L’inesaudibile

Nella misura in cui l’oggetto del desiderio è dunque di suo quella tal forma che di suo ci fa cenno e in quanto è quindi e resta sempre un autonomo altro, può perciò anche sempre sottrarsi.

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In un nastro di Moebius…l’insetto che percorre la superficie… può credere in ogni momento che sia una faccia che non ha ancora esplorato, quella che è il rovescio della faccia che sta percorrendo. L’insetto può credere a questo rovescio, benché di fatto non ci sia… Senza saperlo, esso esplora l’unica faccia che c’è, eppure, in ogni momento, c’è anche un rovescio

(Jacques Lacan, Seminari 1962-63, p.148)

… In un nastro di Moebius…”

L’insetto – di cui Lacan descrive lo spostamento lungo il tragitto sulla superficie di un nastro di Moebius – evidentemente ci rappresenta. Rappresenta il nostro consapevole avanzare lungo il tragitto del tempo del nostro vivere, a occhi aperti, vigili, rivolti a ciò verso cui andiamo.

Il nastro ha però un rovescio.

Sotto e dall’altro lato del nastro su cui scorre il mio tragitto, si dà infatti dell’altro, si dà un nascosto in parallelo. Ma questo nascosto in realtà mi attende, sarà prima o poi anch’esso svelato attraversato nel mio scorrere nell’”unica faccia che c’è” in realtà del nastro.

Imprendibile e onnipresente sempre c’è cioè un rovescio. Nascosto e quindi inconscio, ma anche insieme attualmente presente, sia pure nel lato nascosto. Attualmente presente quindi come inconscio. Ma anche sempre in attesa di essere a sua volta attraversato, più avanti, per cui l’avanzare verso il rovescio, che in qualche modo perciò è sempre prima o poi raggiunto, è peraltro anche uno spostare il rovescio sempre un po’ più avanti, tenendolo comunque sempre nascosto sotto. Si rincorre così sempre il rovescio, come rincorrere la propria ombra.

In quanto è impossibile stare insieme sopra e sotto la superficie su cui si scorre, mai la superficie sarà rovescio. Ma – d’altro lato e insieme – nessun punto della superficie del nastro sarà tuttavia per sempre rovescio. Prima o poi – questo è il nastro di Moebius – ogni punto del rovescio sarà superficie su cui si passa.

Se da un certo punto di vista il rovescio è quindi l’ora inaccessibile, dall’altro sarà sempre raggiunto e oltrepassato (e, in linea teorica, tutto ciò pure più volte).

Fuor di metafora, l’altro lato del nastro è l’alterità inaccessibile su cui, sopra e accanto a cui pure scorriamo. Ma che non vediamo. Essa è un’assenza.

Assenza che tuttavia diventerà presenza, pur sempre insieme ad altra diversa ulteriore assenza.

Grovigli

Tutto ciò è di certo un (bel) groviglio.

Uno dei tanti, peraltro, che Lacan ci espone. Insinuandoci spesso persino il dubbio che a seguirli, questi grovigli, non si stia che girando a vuoto, o in tondo, come in fondo si farebbe percorrendo la superficie di un nastro di Moebius.

Lacan dunque: Lacan l’eretico fedele a Freud, Lacan l’istrione, Lacan la voce che attira le folle ai seminari, Lacan l’enigma, Lacan l’oscuro ostico illeggibile, Lacan che non chiede imitatori, Lacan che squaderna le facce del desiderio su cui invita a non transigere nel mentre tace il suo.

I miei Scritti non li ho scritti perché venissero capiti, li ho scritti perché vengano letti. Che non è per niente la stessa cosa”. Così scrive Lacan e non è una boutade, una presa in giro, uno dei suoi non infrequenti motti di spirito. Anzi, l’indicazione è preziosa, va presa sul serio. Può significare che leggere i suoi scritti non è solo decodificare significati, ma è un incontro, è immergersi in un’esperienza, un’esperienza del simbolico, di linguaggio.

Leggere Lacan non lascia perciò indifferente, così come non lascia indifferente nessun incontro significativo. Leggere Lacan non lascia uguali a così come si era prima.

Incontrare la sua scrittura è l’incontro con un discorso tortuoso, perché è discorso che intende accostarsi all’inconscio seguendone la figura tortuosa. E’ linguaggio in ascolto della verità in cui l’inconscio consiste, cercando di corrispondere all’irrappresentabile che pur l’inconscio è. Discorso dotto, alchemico, algebrico. Forse a volte ironico. Magma discorsivo in cui emergono enigmistica, rebus, giochi di parole. Discorso su specchi, e bambini giubilanti nello scoprirsi riflessi in essi, discorso su macchine e schemi ottici, su evanescenze. Discorso su matemi aggrovigliati, flussi joyciani di parole alla Finnegans Wake, topologie matematiche, quadri surrealisti. E ovviamente discorso su casi clinici, e testi freudiani. E dunque su sogni, lapsus, atti mancati, motti di spirito. Ma pure su metonimie e metafore. Discorso alludente alla linguistica, allo strutturalismo, alla filosofia (Heidegger, Foucault, Sartre e Merleau Ponty, Kant a braccetto con Sade, Platone e il suo Simposio a pluristrati). Infine discorso su nodi: letteralmente nodi. Nodi araldici o da marinaio, materialmente da aggrovigliare e sciogliere. Discorso su significati. Ma altrettanto su significanti. In un’apparente baraonda che allude a ambivalenze, nel dubbio a volte di essere presi presi in un gioco surrealista.

Ma a lasciar sedimentare tutto ciò una volta letto (e magari, come Lacan stesso sa e ci dice, persino non capito) più di un senso, in più di un senso, si impone e balena.

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Ricordo bene: lo avevo capito…

I concetti si erano finalmente inanellati in fluida cogenza.

Il ragionamento si era dipanato esatto, sviluppandosi in tutti i suoi precisi minuziosi passaggi.

In nitida evidenza, passo passo, snodo dopo snodo, i grovigli aporetici, uno ad uno, li avevo sciolti, in perfetta sequenza. L’enigma, ora decifrato, aveva lasciato approdo alla conclusione. Il vero, finalmente illuminato, era lì: evidente. Un unico nesso includente premesse e conclusione, nell’articolata necessaria struttura del pensiero si era saldato e disposto.

Avevo finalmente capito (il teorema, la situazione, il senso di un gesto o una frase, l’essenza profonda di una persona…: una verità, insomma)

Dimenticanze

Lo avevo capito…

Ma ora – qui ora – ricordo solo null’altro che questo: che lo avevo capito.

Se cerco cioè ora su due piedi di rammemorare come ero arrivato a capirlo, magari perché tu me ne chiedi resoconto e ragione, se cerco ossia di ricordare in che modo vi ero arrivato e quindi cosa avevo esattamente capito, questo, qui ora, almeno per ora, me lo sono scordato.

Succede… Quando accade, capita dunque che al più mi ricordi la conclusione cui ero approdato, la tesi colta quale punto d’arrivo. Ma anche questo, persino questo, a volte, così su due piedi, mi sfugge.

Capita allora di essere certo che ne ero sì certo, ma non ricordo esattamente certo di cosa. Men che meno allora ricordo il decorso di tutti i passaggi del ragionamento nella precisa forma che avevo compreso: non ricordo i perché della conclusione di cui – lo ricordo – avevo raggiunta certezza.

Ne avevo – ricordo bene – avuta evidenza in idea chiara e distinta. Tenevo in pugno una verità. Che però ora, scordata, non tengo più.

Ci devo perciò di nuovo pensare. Quanto ora mi sfugge lo devo di nuovo riprendere…

La tela che avevo tessuto si disfa… La devo ritessere ogni volta di nuovo….La tela si tesse, si disfa, ritesse, ridisfa

Volti… gesti… voci…

Cerco di ricordarmi quel volto… quel gesto.

Ma il ricordo è sbiadito.

Particolari mi sfuggono e, più ci penso – senza quei dettagli che ora non ricordo ma che erano quelli che gli davano la sua identità inconfondibile – quel sorriso, quel certo sguardo, non riesco più a prenderli nell’immagine del loro ricordo.

Quelle certe fattezze che cerco di far tornare alla mente – fattezze che avevano l’insostituibile pregnanza di senso cui tu rimandavi – me ne accorgo, nella loro precisa configurazione sono ora svanite dalla mia mente o al più solo vagamente accennate nel mio ricordo di esse….

Cerco di far risuonare dentro di me quella voce. Unica. Differente da tutte le altre. Ma non ci riesco.

Non ne ricordo più il timbro esatto. Non riesco a risentirlo dentro di me. Né riesco a farne risuonare dentro di me la cadenza precisa, né le inflessioni che la contraddistinguevano. Inconfondibile, il suono in cui consisteva era corpo di chi mi parlava (e interessava).

Com’era quell’odore così inconfondibile? Che atmosfera esattamente c’era in quel calore o frigore dell’aria? E quella luce com’era nel suo irripetibile cristallo? Com’erano esattamente quel toccarsi, abbracciarsi, salutarsi?

Non riesco a richiamarli alla mente così come erano. Anch’essi scordati….. Continua a leggere »

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“Alla ricerca di Spinoza” (Antonio Damasio)

Evidenze: apparire della notizia del mondo

Secondo il “principio di tutti i principi” della fenomenologia husserliana «…ogni visione originariamente offerente è una sorgente legittima di conoscenza…Tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione, per così dire in carne ed ossa (leibhaft) è da assumere come essa si dà”. Innegabile è cioè ciò che appare così come appare.

Mondo, corpi (tra i corpi il cervello) la mia mente, gli altri con cui incrocio lo sguardo… e tutto quanto di altro appare, innanzitutto, appunto, appare. Ossia è innanzitutto accolto in uno sguardo (l’apparire) che essi (le cose che appaiono) non sono. Non avente origine in altro, tale sguardo è l’originario. In tale sguardo, nel suo orizzonte si dipanano e ogni vicinanza e ogni lontananza, si dispongono ogni altro sguardo e altro orizzonte.

Evidenza fenomenologica è anche il mio corpo vissuto, localizzato e orientato. Corpo percettivo e emotivo dal quale si apre lo sguardo originario. Corpo esposto intenzionato al con-tatto del mondo, abitato da tutto quanto la sua superficie e il suo interno eventuano,(da sensazioni, emozioni, pensieri, da tutte le forme di intenzionalità che la fenomenologia individua)

Evidenza fenomenologica è l’apertura del mondo, nella quale – nello sfondo originario che struttura il reale – si dispiegano ogni mutazione e ogni esperienza. Cervelli e attività mentali, corpi inerti o senzienti e viventi, pensieri e emozioni, tutto implica a priori il mostrarsi dell’apertura del mondo che accoglie la totalità di ciò che si mostra nell‘immediatezza del suo apparire.

Corrispondenze biunivoche

Sia il cervello che la mente quindi innanzitutto appaiono. E appaiono così come appaiono, ossia nel problema in cui consiste la forma del loro rapporto.

Modo per tentare di risolvere questo problema è ridurre il mentale al cervello, sulla base di una corrispondenza biunivoca tra i due piani in cui essi consistono.

Se riesco a ridurre il pensare all’attività di una parte del corpo (appunto: il cervello), la mente sarebbe concepibile essere semplicemente cervello (usando l’icastica affermazione di Hegel in riferimento alla frenologia del suo tempo, “lo spirito è un osso”). Per conoscere l’attività della mente basterebbe conoscere l’attività del cervello, riconducendo tutto quanto appare mentale a stati osservati nell’attività cerebrale. Per conoscere gli stati mentali dovrò quindi osservare il cervello e per osservarlo devo porlo come oggetto di fronte, nel mondo esterno.

Il cervello tuttavia sta dento le teste e non lo vedo. Per vederlo devo aprire le teste e guardarvi dentro (per esempio in dissezione anatomica), nel qual caso però vedrei solo una massa corporea che all’osservazione diretta nulla mi dice del mentale che peraltro penso sia in essa racchiuso. Posso anche osservare comportamenti del corpo che suppongo il cervello controlli e da ciò dedurre circa il cervello. Oppure posso vederlo nel suo funzionamento, attraverso macchinari che ne registrano in qualche modo l’attività e la traspongono in immagini decifrabili dell’attività cerebrale stessa.

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« Un’immagine ci teneva prigionieri.

E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio, e questo sembrava ripetercela inesorabilmente. » 

(Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche 115)

***

Cervelli

Le neuroscienze, il sapere medico, i saperi scientifici in genere, il senso comune che per lo più mi guida nel mentre agisco e vivo la mia quotidianità, presuppongono un mondo in cui ci sono cervelli: pezzi di corpo in cui ha sede il pensiero, che dell’attività dei cervelli è in qualche modo l’effetto.

Io ho un cervello. Coscienza, emozioni, pulsioni, percezioni, pensiero sono racchiusi, nel cervello, senza il funzionamento del quale tutte queste esperienze non potrebbero esistere. Non potrebbero esistere come dimostra il fatto che al cessare dell’attività cerebrale tutte queste realtà svanirebbero e come dimostra il fatto che, se è vero che si può ritenere esistere cervello anche senza vita mentale (per esempio nel coma profondo), non sembra però poter esserci alcuna vita mentale senza base materiale di supporto, senza cervello in attività.

Non c’è perciò vita mentale senza cervello.

Questa convinzione – si pensa – si fonda su fatti. Fatti ritenuti, nella visione ingenua che guida la nostra quotidianità, semplicemente banalmente esperiti. Fatti sperimentalmente fondati con avvedutezza metodologica nel caso dei saperi scientifici.

Ciò di cui davvero mi avvedo

C’è dunque il cervello, c’è la materia di cui è fatto, c’è la sua attività che si sviluppa e che via via lo configura nelle sue fisiologiche cangianti forme. C’è il cervello, come posso vedere se assisto a una dissezione anatomica un cui posso anche vederlo e toccarlo o come me lo mostrano dispositivi tecnici sempre più sofisticati e precisi (dagli elettroencefalogrammi alle tomografie) che consentono in qualche modo persino coglierlo nel suo funzionamento.

C’è il cervello. Sappiamo che è qui, nella testa. Quasi lo sentiamo che c’è ed è lì. Riteniamo che là dove sta ci siano materia grigia, neuroni, sinapsi e tutto ciò che di altro vi è in esso.

Tuttavia tutto ciò (materia grigia, neuroni, sinapsi…), tutto quanto è descritto dalla fisiologia, tutto ciò di cui sappiamo e che siamo convinti vi sia lì nella testa, dentro il cervello, in realtà – si badi bene – non lo esperiamo.

Non lo esperiamo cioè in quanto tale, Ciò che viviamo e percepiamo davvero è altro. So che nel cervello ci sono neuroni e sinapsi. Ma tutto ciò non lo sento. Non sento il neurone, non percepisco sinapsi. Ciò che percepisco è altro e altro rimane anche se lo interpreto come effetto dei meccanismi fisiologici del mio cervello.

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Il sogno del Re

Nel mondo parallelo in cui Alice è entrata attraversando lo specchio (nel seguito di “Alice nel paese delle meraviglie“, che è “Attraverso lo specchio“), Alice, a un certo punto, dopo avere incontrato i Tweedle, vede il Re Rosso dormire.

Tweedledum, provocatorio e irridente, riferendosi al Re Rosso che dorme, scambia con lei queste battute:

– Sta sognando, adesso. E cosa credi che sogni?

– Nessuno lo può indovinare.

– Ma come, sogna di te. E se smettesse di sognare di te, dove credi che saresti tu?

– Dove sono ora, naturalmente.

– Niente affatto; non saresti in nessun luogo. Perché tu sei soltanto una cosa dentro il suo sogno. Se il re dovesse svegliarsi, tu ti spegneresti… puf… proprio come una candela

***

In questo “sogno del re” c’è dunque Alice che vede uno (il Re) che sogna chi lo vede (Alice) e lo sogna talmente intensamente, e talmente realisticamente, che chi lo vede (Alice stessa) può essere concepita – questo il dubbio che Tweedeldum vuole insinuarle – come in realtà null’altro che contenuto del sogno.

Contenuto di un sogno che, al risveglio del Re, svanirà.

Nel possibile inganno

Come Alice può immaginare (nel dubbio insinuatole dal Tweedeldum), di essere il sogno di un Re, posso anch’io immaginarmi contenuto di un sogno. Posso immaginare di essere nulla più che un sogno di un re (o di un dio, o di chiunque), dentro un inganno in cui anche il mio mondo non sarebbe dunque che un sogno e un inganno. 

Che io possa essere da chiunque ingannato in qualunque momento è peraltro evidenza, che l’immagine del sonno del Re nel mondo di Alice non fa che portare alla luce. Sempre tutto ciò che credo può essere frutto solo di inganno. Come posso anche essere non ingannato, ma sempre nel dubbio che inganno vi sia.

Chiunque può essere, almeno in parte e in questo senso, il mio dio ingannatore e chiudermi nel sogno da lui – diversamente dal Re però consapevolmente – inventato.

Genio maligno

Se il mio mondo fosse davvero l’invenzione di qualcuno mi inganna, risveglio sarà lo svanire di un mondo, quello dell’inganno, che però pure è stato mio mondo.

Perciò il dio ingannatore di Cartesio è genio maligno.

Non solo e non tanto per la possibilità dell’inganno (magari esiste infatti pure un provvido inganno). Ma perchè mi induce a concepire la possibilità dello svanire di me, nello svanire dell’inganno del sogno, se nell’inganno del sogno io consisto e persisto.

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Mondo digitale, mondo reale

Nel mondo reale, nell’evidenza fenomenologica della mia vita sancita dall’esser sé di ogni cosa, nel mondo cui supporto è la terra, copertura e apertura è il cielo, i corpi – viventi o inerti, gaudenti o dolenti – si dispongono e incontrano, nelle miriadi di incroci e interferenze reciproche in cui lanciano e lasciano tracce gli uni negli altri.

In questo mondo, che è originariamente e ineludibilmente il mondo che dico e sento reale, le “res” - nel loro essere cose oscure impenetrabili oppure svelabili e/o malleabili, nella loro alterità irriducibile – sono disposte, nello spazio dell’apparire in cui consisto, innanzitutto come corpi tangibili.

In questo mondo – illuminato del sole, orientato dalla luna e le stelle, mondo ove paesaggi sono sfondi, più o meno avvertiti, agli incontri coi corpi – tra i corpi tangibili, alcuni sono dispositivi (pc, smartphone, ecc..) che danno accesso alla Rete (alla rete delle reti: Inter-net) in cui si espone e si svela – nell’interfaccia di schermi levigati a portata di dita, in superfici che si espongono al mondo – ciò che chiamiamo il mondo digitale.

Il mondo digitale quindi emerge dal mondo reale e in esso sta e persiste, nei dispositivi per mezzo dei quali esiste e funziona. Ma nel reale anche irrompe, ponendosi come altro mondo, risucchiando verso sè stesso tempo ed energie degli umani. Attraendo verso di sé attenzione e tendendo seducente a monopolizzarla tende così a sovrapporsi al mondo originariamente reale, a oscurarlo, porta a trascurarlo.

Ciò non è irrilevante. Ed è già sufficiente per intravedere nella presenza sempre più invasiva del digitale l’avvento di un’epoca nuova, di un nuovo modo di essere umano.

On-life

Il mondo digitale non è cioè quindi fuori dal mondo. E’ nel mondo, è una parte del mondo che, come tutte le parti del mondo, interagisce col resto del mondo.

Non è propriamente corretto perciò dire – come a volte accade di fare – che chi, cellulare in mano o di fronte a uno schermo, passa tempo e tempo in Rete, nel mondo digitale immerso, se ne stia perciò fuori dal mondo o viva, del tutto estraniato, in un altro mondo. In realtà, per quanto isolato e ossessivamente ipnotizzato catturato dall’ipestimolazione di dati che dalla Rete gli arrivano, è pur sempre immerso in un ambiente che nel reale è innestato e sta.

Usando il neologismo (ossia il termine “on-life”) coniato da Luciano Floridi: nel rapporto con l’infosfera digitale non siamo on-line, ma siamo on-life. Con le tecnologie digitali, nelle piattaforme del Web, acquisiamo infatti notizie, compriamo e vendiamo, esprimiamo opinioni, prenotiamo viaggi, comunichiamo, cerchiamo e coltiviamo amicizie e molto altro ancora facciamo, tutte cose che hanno rapporto con la vita quotidiana reale.

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 Ma che sarà di noi

Che sarà della neve, del giardino,

che sarà del libero arbitrio e del destino

e di chi ha perso nella neve il cammino…

(Andrea Zanzotto)

Un lancio di dadi. Un incontro imprevisto, un evento inatteso … un incidente che capita. “Il caso ha deciso la sorte”, possiamo dire. Oppure, al contrario: “Era destino”.

Il nostro essere venuti al mondo, ed esserci qui e ora e così: è caso?… o destino?

Che qualcosa ci appaia casuale non potrebbe dipendere solo da ignoranza delle sue cause ed essere invece tutto destino (da sempre e per sempre) nel nesso necessario (seppur sconosciuto) che lega ogni cosa a ogni altra? Ma a sua volta, il destino che io, tu, si abbia questo specifico nostro destino, non potrebbe essere, nel profondo più fondo, che un caso?

Porsi, poi, queste domande, o altre consimili sul caso e il destino – a volercelo proprio chiedere – è un caso o è destino?

Caso o destino

Caso e destino – lo dimostrano già solo le domande che possiamo porci ipotizzandoli come risposte – ci riguardano da vicino, riguardano il fondo della nostra esistenza. Si configurano infatti quali possibili risposte ultime sul perché delle cose.

Caso è infatti in ultima analisi riconducibile a un provenire dal nulla (da un nulla di essere o da un nulla di cogenza). Destino è (dis)porsi di un immutabile essere esistente già sempre, cioè eterno. Ed è nella dimensione e nel gioco dell’essere e/o il nulla che i problemi ultimi trovano il fondo.

Caso e destino si configurano però anche come risposte tra loro alternative, opposte griglie interpretative di quanto si mostra nell’apparire. Quanto accade per caso non può infatti accadere secondo un destino; quanto è secondo destino non può accadere per caso.

Nel nodo di caso e destino

Tuttavia – nonostante siano, caso e destino, risposte ultime inconciliabili in relazione allo stesso – qualcosa di profondo anche accomuna le due alternative.

Se il caso non è infatti scelto (ma capita, accade), il non essere scelto caratterizza pure il destino.

Qualcosa sembra annodarli, al di là di una logica ferrea che li pone opposti. Se infatti in fondo possiamo anche dire essere un caso ci sia capitato di avere questo destino, pure potremmo dire era destino il caso sia ciò per cui quanto accade ci accade.

Perciò poichè La Cosa, la realtà, è Una, è quella nella sua identità, caso e destino sono sì due modi opposti per concepirLa e per dirLa, ma forse – nel rimando per cui può essere un caso sia tutto destino, o sia destino che tutto sia caso – tendono anche in qualche modo a intrecciarsi, avvinti tra loro in un qualche nesso.

Per cogliere il nesso, va però ben focalizzato innanzitutto cosa siano e implichino e il caso e il destino

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Bisogni e desideri: intrecci

La nostra vita è intessuta e punteggiata da bisogni, alimentata da desideri.

Sono essi – i bisogni, i desideri – che le danno orientamento, intensità, tormento e impulso. Intrecciati tra loro – bisogni con bisogni, bisogni e desideri, desideri con desideri – in nessi, analogie, interconnessioni paiono a volte confondersi.

Bisogno e desiderio infatti si assomigliano: entrambi sono alimentati da una mancanza (avere bisogno di qualcosa implica infatti che ciò di cui abbisogniamo manchi; desiderare che il desiderato non sia raggiunto), entrambi tendono a colmarla (il bisogno svanisce quando è soddisfatto, il desiderare termina laddove il desiderato è ottenuto).

Qualcosa di profondo dunque li accomuna, non fosse che la struttura di mancanza (che li alimenta) e ottenimento (che li soddisfa) in cui consistono. 

Tuttavia qualcosa di ancor più profondo – più profondo di quanto non li accomuni- li differenzia.

Bisonium

Che bisogno e desiderio non siano la stessa cosa lo si desume già dall’etimologia delle parole che li indicano. Se de-siderio, nel “de” privativo del “sidereus”, indica la mancanza delle stelle cui dunque aspira in nostalgia, bisogno (derivando dal tardo latino “bisonium”) significa invece avere cura e attenzione per cosa che cura reclama in quanto, essa cosa, è percepita quale ostacolo, impedimento.

Avere un bisogno significa quindi accorgersi, nell’averne cura, di un ostacolo che attrae l‘attenzione su sè, ostruendo quindi il volgere attenzione ad altro.

In questo accorgersi, nel bisogno, si coagula cioè un ingorgo al fluire della vita che, percepito quale sofferenza, inchioda l’attenzione – in cui il bisogno consiste, ad esso.

Equilibri

Da questa sofferenza si ha bisogno uscire.

Nel bisogno si percepisce quindi in sè stessi un disagio – disagio in cui il bisogno consiste – che spinge a superare la situazione di bisogno, a superare il disagio che, attraendo attenzione a sé, ostacola l’equilibrio appagante cui la vita tende.

Nel bisogno si è cioè in uno squilibrio che alimenta una tensione, che si vorrebbe assente, eliminata.

Per ciò serve una trasformazione che porti alla soddisfazione, nel ripristino di un equilibrio in un nuovo stato omeostatico.

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(…)

Conoscere sé per mezzo dell’altro

Amavo Socrate nella convinzione che toccasse a me – se mi concedevo a Socrate – di ascoltare proprio tutto quello che costui sapeva”

(“Simposio”, discorso di Alcibiade)

Nella vicenda amorosa, alimentata dal desiderio e sostenuta da indizi di una promessa possibile, l’amante vuole dunque avere accesso alla trasparenza di tutto l’amato. E questo accesso lo vuole (r)assicurato, ancorato a un “per sempre”.

A tal fine l’amante interpella, parla, chiede, progetta, escogita, pensa. Si arrovella perciò nel tentativo di indirizzare il discorso, lo propone, cerca così di intessere dialogo e di alimentare in tal modo una storia. Ma, nonostante tutte le intenzioni e accortezze, il discorso d’amore può essere governato e dominato solo in piccola parte.

L’amante vorrebbe infatti svelare l’amato in trasparenza assoluta, catturarne il segreto, ma l’amato – finché è desiderato – sfugge alla presa. Si desidera infatti solo quanto non si possiede e l’amato desiderato resta – finché il desiderio lo agogna – in quanto tale non colto nel suo prezioso segreto. Questo segreto alimenta la vicenda d’amore, per cui le parole (e quindi i significati delle singole azioni) nella trama del discorso e della storia d’amore non possono avere mai chiaro e univoco senso, ma possono solo alludere a quanto significano. In gran parte dunque anche sviano e nascondono.

Perciò nella vicenda e nel discorso d’amore nessuno governa la cosa, men che meno l’amante. Quanto accade è quindi sempre anche altro da quanto è ordito. Le parole e le azioni innescano cioè sempre anche altro da quanto, peraltro confusamente, è auspicato. Di questo altro il discorso e la vicenda amorosa sono la cifra, che non scioglie l’enigma.

L’amante è cioè dominato da una potenza, che lo attrae e che egli attribuisce all’amato. Perciò vuole conoscere dell’amato tutto: perché vuole sapere della figura e del segreto di questa potenza – in quel tutto intravista – che così tanto lo attrae. Ma, nel perseguire questo intento, non ha in realtà mai esperienza di tale potenza, che ritiene essere altra da sé. Quel che davvero l’amante esperisce, quel che gli accade davvero è invece inevitabilmente esperire (e quindi in qualche modo conoscere) innanzitutto una parte di sé: quella parte che, essa potenza, a contatto con la supposta potenza dell’altro, si accende e si espande.

L’interesse, colmo di desiderio, è guidato quindi, in tal modo, sì dalla ricerca dell’identità dell’amato. Ma questa ricerca è piuttosto occasione e pretesto per percorrere in realtà altra via, nella quale la vera posta in gioco del desiderio attivato si mostra. L’unica via percorribile, l’unica che dunque per davvero sia in gioco, è infatti quella che porta a conoscere quella specifica parte di sé che è attratta e potenziata dalla specifica forma di potenza nell’amato intravista.

Nel conoscere e accedere a tale potenza il rapporto d’amore si svela essere in realtà mezzo per conoscere . Continua a leggere »

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(…)

Ai reciproci sguardi ognuno è assenza per l’altro. Il rapporto con l’altro è, perciò, incontrare l’assenza.

Proprio per questo è qui, da qui, solo da qui – ossia solo a partire dalla tua (mia, sua…) assenza – che l’incontro reale è possibile.

Se infatti tutte le cose (me incluso) volgono verso altri un volto in cui appare un’assenza che sfugge, è purtuttavia per la presenza di questo volto (nel senso del volto del viso, e nel senso di tutta la mia esteriorità volta verso l’esterno) che lo sguardo di altri mi conferisce anche, proprio oggettivandomi, spessore.

Mi conferisce quindi (il mio) corpo, rivelandomi il mio avere e essere un corpo.

***

E i corpi si oppongono, si scontrano (ledono e sono lesi, al limite sino a squartare e squartarsi). I corpi si allontanano, si scostano. Ma anche si avvicinano, sfiorano, toccano (scrutano, carezzano, penetrano…).

Soprattutto: i corpi si guardano.

***

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Dicono

che il primo amore sia il più importante.

Ciò è molto romantico

ma non è il mio caso.

Qualcosa tra noi c’è stato e non c’è stato,

è accaduto e si è perduto.

Non mi tremano le mani

quando mi imbatto in piccoli ricordi

e in un rotolo di lettere legate con lo spago

nemmeno con un nastrino.

Il nostro unico incontro dopo anni,

la conversazione di due sedie

intorno a un freddo tavolino.

Altri amori

ancora respirano profondamente in me.

A questo manca il fiato per sospirare.

Eppure proprio così com’è,

è capace di ciò di cui quelli

non sono ancora capaci:

non ricordato,

neppure sognato,

mi familiarizza con la morte.

(Wislawa Szymborska)

***

L’affettività in cui, anche, consistiamo alimenta ogni nostra ricerca, ogni nostra relazione, ogni nostra dinamica. Le sue forme e sfumature sono molteplici. Ma tutte sono calibrate intorno a una figura che in qualche modo le alimenta tutte, dando quella misura il cui plesso semantico i Greci hanno nominato Philìa, o Eros.

Anche la filo-sofia, in quanto philìa, trova misura nella tensione in cui questa forma affettiva consiste e perciò filosofia è sempre in qualche modo pratica e discorso amoroso. Talvolta può essere esplicitamente anche discorso su amore. Platone su questo ci è antico maestro, ma anche altri e altri – non solo Platone – si sono arrischiati nel dire su Amore. Sentieri sono stati così da discorsi percorsi, un mappa del dire d’amore è stata in tal modo tracciata.

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Sul tema molto da dire hanno però anche i poeti. Wislawa Szymborska ad esempio,  nei versi cui sopra, nel suo rammentarci il legame tra l’amore e la perdita (dunque tra l’amore e la morte). Ma anche altri e altri meritano attenzione ed ascolto, e non solo poeti: tutti coloro che hanno disposto in parola quanto è traccia del desiderio che alimenta la vita ed è richiamo ad aprire l’orizzonte cui Amore ci avvia.

Frammenti

Pensando mi sono creato eco e abisso. Approfondendomi mi sono moltiplicato.

(Fernando Pessoa)

Il discorso su amore non può perciò, anche date le più disparate fonti da cui è stato alimentato e intessuto, che dispiegarsi polivoco, articolarsi in frammenti (in un gioco che consente il rifrangersi di echi ed abissi).

Corrispondendo alla natura di Amore, in cui il senso lampeggia intenso e profondo ma a sprazzi e spezzato e non certo articolato in un discorso disteso secondo pura ragione, già Platone di questo è del tutto avveduto: nel Simposio perciò quando Diotima tratteggia la figura di Eros lo presenta a pennellate incisive e secondo diversi lati prospettici ognuno perfettamente calzante, ma anche ciascuno a sé stante nonché per sé insufficiente a esaurirne figura.

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Unheimliche. La Luna

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Quando non vi è più acqua non vi è più luna-nell’acqua,

e lo stesso quando non c’è luna

( Watts, “La via dello zen”)

…..

Legata alla Notte (anche quando – come talvolta accade, accentuando in tal modo il suo enigma – appare di giorno) è la Luna.

La Luna – diversamente dal Sole – si lascia guardare e fissare. Apparentemente perciò presenza accessibile e familiare, in realtà se ne sta lì, indifferente alla mia vita. Accompagnatrice sospesa su me, straniera attrae lo sguardo a sé nella notte. Una e unica (come unica è la mia esistenza) solitaria eremitica, capta attenzione. Attraente, stregante, enigmatica ammalia.

La Luna sembra ferma, ma invece si muove – lentamente si sposta, e si trasforma: si alza e tramonta, nel suo ciclo calante o crescente, si espande e contrae (come i ritmi delle mie intensità ed energie)

All’ingrandirsi del suo disco sembra avvicinarsi. Sempre però resta imprendibile, troppo lontana.

Sembra presenza costante, ma nel novilunio anche scompare, dando peraltro in tal modo presenza anche all’assenza.

***

La Luna può apparirmi un foro da cui esce luce. Mi sembra allora un varco, spiraglio che attrae. Attrae verso chissà. Ma ciò è illusione.

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(…)

Ognuno dunque sta rispetto a ogni altro a una invalicabile distanza.

Da questa distanza, le spazializzazioni che si aprono ciascuna da ciascun specifico luogo in cui si annida uno sguardo, dispongono, rispetto ogni spazializzazione che sia altra, un doppio fondo delle cose: quello che so esistere, ma a me ostruito, aperto nello sguardo della spazializzazione altrui.

Ciò non può non inquietarmi: nel doppio fondo l’altro infatti si ritrae e da lì guarda, disponendomi a mia volta come annidato, dal suo punto di vista, nel mio doppio fondo.

In questo gioco i due sguardi (il mio, il tuo) non sono componibili. Nel luogo infatti in cui si colloca l’altra coscienza che io non sono (che sei tu) è come ci fosse un foro verso cui tutto il mio mondo (me incluso) defluisce completamente nel suo doppiofondo, nella sua prospettiva che non è la mia.

Così mi decentra, al margine.

Al margine della sua prospettiva che, alternativa alla mia, è – nella mia prospettiva (in cui io consisto) – un’assenza.

***

Ci disponiamo quindi, l’uno rispetto all’altro, come assenze l’uno per l’altro.

Ognuno centro di spazializzazione e sguardo, e insieme punto di fuga, assente per l’altro, che risucchia il mondo dell’altro, che peraltro le è e le resta assente.

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(…)

Nell’essere io erto nel mio orgoglio, lui (o lei) a fronte il/la quale sto è quindi oggetto ridotto a cosa.

Questa cosa però mi guarda nel mio essere a mia volta cosa.

Nell’orgoglio tale sguardo, che nella vergogna mi invade, lo fronteggio.

Se non lo colgo amico, perciò lo sfido. Ma, qualora fosse, posso cogliervi anche altro che un pericolo. Posso leggervi – e posso farlo: ora è mio oggetto, che io scruto – benevolenza, curiosità, interesse… persino ammirazione, attrazione. Di tutto ciò, che mi gratifica, posso appropriarmi: nell’orgoglio posso farli miei.

***

Nell’orgoglio non sono più in balia dello sguardo altrui, come nella vergogna. Ora io che ti guardo, tu che mi guardi, siamo in pari: scrutiamo ciascuno l’altrui scrutare, reciprocamente ci guardiamo.

Due (auto)coscienze sono così in relazione tale per cui possono cogliere di sé quanto l’altro coglie.

***

Ma nei due sguardi (nel mio e nel tuo, come in qualsiasi sguardo) sono anche gli oggetti dei rispettivi sguardi. Tali oggetti (tra cui l’altrui sguardo in quanto oggetto) sono presenti da sé nell’apparire in cui compaiono. La relazione con essi è cioè immediata.

In tale relazione, nell’immediatezza fenomenologica in cui si dà, non c’è cioè distanza. Ma dallo sguardo, in questa immediatezza senza distanza, si apre la spazializzazione. Si apre la presenza in cui gli oggetti si dispongono – nella relazione immediata senza distanza tra essi e lo sguardo – nei loro luoghi.

Tra questi luoghi si dispongono le distanze.

I due sguardi che reciprocamente si guardano sono, in quanto ognuno oggetto per l’altro, in tal modo anche luoghi l’uno per l’altro. Se infatti oggetto del mio sguardo è il tuo sguardo localizzato, in quanto sei oggetto del mio mondo, anche tu a tua volta mi guardi localizzandomi come tuo oggetto. Anche tra i due oggetti, che io e te l’un per l’altro siamo, tra i due luoghi che in tal modo io e te siamo, una distanza quindi si insinua e si dispone.

***

Se dal mio sguardo si apre uno spazio, anche dal tuo sguardo, lo so, si apre spazio.

Ma questo tuo spazio non è il mio. In questo tuo spazio non sei mio oggetto, ma altro soggetto che sta lì, a distanza.

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(…)

Quando ci collochiamo nella dimensione pubblica interpretiamo ruoli. In certo senso, recitiamo parti.

Ci rivestiamo di esse, come rivestiamo di abiti il corpo nudo.

Tentiamo così di essere oggetto adeguato in situazione da noi disposto, nella misura in cui scegliamo noi e ruoli e vesti.

Ma ciò non ci evita l’esposizione allo sguardo altrui. Anche se ora, rivestiti, scegliamo la recita della nostra parte di fronte a un pubblico, questo sguardo resta onnipresente. Sempre si resta avvolti da quello stesso sguardo indefinito ed impalpabile, sconosciuto e perciò temibile, che la vergogna sente.

Anche nel rivestimento il mio io, come nella vergogna (seppure in diverso modo) purtuttavia, nell’esposizione, mi sfugge.

***

Se e quando però alzo il mio di sguardo verso gli sguardi che mi fronteggiano, allora di fronte a me non avrò più lo sguardo indefinito (indecifrabile, perturbante e giudicante) di altri, ma bensì io vedrò gli altri quali oggetti, cose. Se altri è da me guardato come l’oggetto che anch’esso pure è, il suo sguardo (che mi guarda) può essere ora guardato: ora è lui una cosa.

In tal modo la vergogna è fronteggiata. In tal modo ci si alza nell’orgoglio.

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“Noi non ci realizziamo mai

Siamo due abissi: un pozzo che fissa il cielo”

Fernando Pessoa

(…)

Sotto lo sguardo altrui, anche il significato di quanto mi copre il corpo nudo, anche il significato di ciò di cui mi vesto, è da lui, non da me, disposto.

Lo sguardo altrui quindi mi in-veste e, quando ciò è percepito in evidenza, questa mia esposizione in un mondo (quello altrui) che non è il mio e di cui non dispongo, mi fa collassare paralizzandomi nella vergogna che così si innesca, nella resistenza di una chiusura a riccio.

Nella vergogna cerco cioè riparo, ma in questo riparo resto nulla più che inchiodato al punto: resto pur sempre esposto e, da lì, dall’altro emerge ciò che per davvero sono: il mio, a me, sfuggirmi. La vergogna mi inchioda a ciò che (anche) sono: sono un oggetto, cioè una cosa.

Resto perciò pur sempre esposto e l’altro cui sono esposto mi restituisce ciò che per davvero sono: il mio, a me, sfuggirmi.

Il rivestimento

A fronte alla mia esposizione nuda non posso cioè che ricoprirmi: di posture, atteggiamenti, acconciamenti, belletti o vesti.

Non posso cioè che cercare, in qualche modo, un riparo, un nascondiglio. Nascondiglio e pertugio estremo è la vergogna, ma in essa il disagio all’esposizione, di cui sono preda, dilaga anziché svanire.

Perciò cerco corazze: rivestimenti.

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Sempre siamo esposti allo sguardo dell’altro.

Lo sguardo altrui ci può seguire infatti sempre e ovunque. Che un tale sguardo ci stia davvero guardando o meno  non è così importante: mai possiamo infatti escludere – come ci insegna Sartre – che uno sguardo (di un dio o di chi altro, magari nascosto, senza essere visto) ci stia spiando. Sempre possiamo -almeno in linea teorica – esser visti.

Questa evidenza – dell’essere perciò sempre esposti – ci costituisce a fondo. Talmente a fondo che è in questo mio essere esposto ad uno sguardo di un altrui soggetto che, letteralmente, prendo corpo. E’ in questo sentirmi visto che infatti percepisco l’avere io una localizzazione, ossia spazialità e spessore, poichè solo se in quanto localizzato sono aperto all’altrui visione. In quanto nello spazio aperto, sono esposto. E in quanto sono esposto, sono vulnerabile (all’agire e al pensare altrui: sono aggredibile, sono giudicabile). Sono perciò in pericolo.

Nello sguardo altrui, la mia trascendenza rispetto al mondo – trascendenza che è il mio riparo da cui dispongo il mondo – viene così a sua volta trascesa nella trascendenza altrui. In questa altra trascendenza appare un aspetto di me che non controllo ma mi riguarda: è il mio me, ad altri oggetto.

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Inquietudine

Diventa ciò che sei” (Friedrich Nietzsche)

“L’unico modo di andare d’accordo con la vita è essere in disaccordo con noi stessi“  (Fernando Pessoa)

L’attimo – in cui si illumina quanto via via ci appare e invade e in cui tutta la nostra vita via via si snoda e incentra – è sempre in tensione: inquieto. Perciò non sosta.

Passiamo così sempre oltre l’istante in cui – pur sospesi nel mentre siamo – mai restiamo.

Mai del tutto acquietati, mai del tutto acquietabili in un approdo, noi siamo inquietudine.

***

Nella luce dell’apparire – la luce in cui consisto, permanente sfondo – accordo col mondo è assecondare lo spostamento che l’inquietudine innesca, nel dipanarsi dello spettacolo che si dispiega.

Questo spettacolo si svolge. Nel suo svolgimento mi capta. Ipnoticamente attratti in esso, là, sempre un po’ più in là, il suo dispiegamento chiama.

L’attimo in cui, un attimo, mi poso perciò, nel mio smuovermi, si smuove. Non è mai perciò pura quiete, non è mai riposo.

Lo spostamento è ciò da cui (pro)vengo. In questo spostamento io consisto. Qui è ogni tensione, ogni desiderare, ogni vibrazione che muova la mente e i sensi. E anche ogni collasso in trauma.

Questa è l’inquietudine che mi pervade.

***

Noi siamo inquieti. E lo siamo perché vivi.

Poichè vivi, i nostri corpo e mente hanno infatti dinamiche e energetiche. Perciò anche forze divergenti e opposte coesistono nello stesso corpo, nella stessa mente. Inquieto è perciò– che sia nel godimento o nel dolore – l’esserci qui ora.

Ma anche la tensione del nesso al prima e al poi inquieta, nella sottile sofferenza data dell’essere spinti altrove volendo restare qua e dell’essere qui tendendo altrove.

***

Inquietudine è perciò in radice, nel profondo, sempre (anche) la sofferenza del non sentirsi a casa.

Per l’inquietudine (quindi, perciò, per l’inquieto) nessuna dimora è mai una volta per tutte definitivamente sua, nessuna sosta è definitiva, nessun incontro è o sarà per sempre. Se tutto viene, tutto va. E sempre altro arriva, sempre almeno in parte nuovo.

Purtuttavia l’inquietudine nemmeno lascia che ciò che deve andare vada: nella tensione vibrante e oscillante dello spingere oltre e insieme trattenere in cui essa consiste, quanto va non è lasciato, quietamente, andare. Ma è preso per la giacca, trattenuto. Nemmeno lascia che ciò che arriva semplicemente arrivi, perché sempre ciò che spinge al nuovo insieme trattiene al prima.

Nessuna quiete è perciò mai raggiunta. Più vai nella profondità che – per lo più inavvertitamente – spaesatamente abiti, più (tanto o poco, ben delineata o vagamente presentita che sia) anche l’inquietudine, che sempre già c’è, emerge.

L’inquietudine in tal modo pungola. Ma se quindi rode, negando sosta in pace e quiete dell’abitare nel puro istante, spinge anche, nel fuggire sofferenza, verso oltre, all’attrazione verso il mondo e gli altri.

***

La sospensione (e)statica dell’istante che dunque, nel mio apparire (in cui appare mondo), sono, è quindi sì terreno aperto e (i)stante. E’ forse la quiete in cui (nell’i-stante) nel fondo più profondo sto.

Ma è qui, proprio qui, che ogni essente è tirato da una parte ma insieme anche da un’altra. Qui poggia ogni tensione.

Ed è qui, nel me di questo istante, che nell’insieme delle tensioni contrapposte, nell’inquietudine, un’energia si concentra e cerca sbocco. Se non lo trova, perciò si accumula, si ingorga: inquieta.

Ma se questa inquietudine non lacera, spinge in avanti.

In questo senso è radice e lievito, del godimento come del soffrire.

***

In tal modo, archi tesi, concordanti discordanti nel vibrare di forze contrapposte – quali nell’eracliteo tutto fluente che tutto include – gli inquieti incontrano sè stessi.

Io incontro così me stesso, tu incontri te. La mia inquietudine e la tua sono sì dunque anche, più o meno sottile, angoscia. Ma sono anche intensità e fermento.

Questa l’inquietudine che io – sospeso (un attimo prima di fluire) nell’unico là dove sto conosco.

Se anche tu tutto ciò lo riconosci tuo, mi comprenderai.

I concetti che la filosofia escogita ed elabora non sono vuote astrazioni.

Nel loro nitore e rigore, nella loro essenzialità, sono in verità distillati di senso.

Perciò essi – in senso letterale – toccano, una volta compresi, chi li intende davvero.

Lo toccano come tocca ogni evidenza. Lo toccano affondando radice – nel loro sorvolare apparente – nell’essere e nell’esperienza dell’essere. Toccano – se intesi – il corpo, che per definizione è il toccato, e incidono in esso pensieri che sono sempre anche emozioni.

Perciò il concettuale è anche esprimibile in parola ed immagine. L’immagine raccorda il concetto al fenomeno, ovvero al sensibile. La parola avvolge il concetto nel risuonare del dire.

***

I concetti si annodano. Implicazioni, relazioni ne disegnano la trama ed ordito nella tessitura del logico. Si stagliano in tal modo reti che sono sfondi e strutture. Le loro determinazioni e nessi sono impalcature di mondi che si aprono.

Ciò può farsi parola, immagine (opera d’arte, poesia, linguaggio comune diffuso). Analogamente infatti anche le parole e le immagini si annodano e tessono.

Perciò i concetti della filosofia dicono – dicono nel fondo, seppure al modo loro del nitore del logico – lo stesso delle fondamentali ed elementari parole con cui gli uomini dicono il mondo: cielo, terra, e le innumerevoli altre parole che dicono tutto ciò che in cielo e in terra si mostra.

***

In origine la parola rivelatrice è il racconto del mito.

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Auto-narrazione e epilogo

L’annunciata o proclamata morte della filosofia, le varie ipotizzate forme del suo oltrepassamento, il tramonto della metafisica e dei suoi immutabili, la marginalità socio-politica dell’etica e dei saperi filosofici: tutto ciò è contemporaneità.

Di ciò per lo più la filosofia è del tutto consapevole, tutto ciò spesso lo tematizza esplicitamente. In questa riflessione sulla sua possibile fine, la filosofia delinea insieme la vicenda che si va, forse, a concludere, cioè l’auto-narrazione della tradizione in cui essa consiste.

In tal modo, nel pensare sulla sua fine, ipotizza anche un inizio (per lo più in un certo luogo, la Grecia, e un certo momento, il VI secolo a.C.) per cui la fine non è che l’epilogo della vicenda che dalla radice greca dispiega l’Occidente per poi concludersi nel mondo (della tecnica) contemporaneo.

L’incontrovertibile

La filosofia, nel ritenere possibile la sua fine, si pensa quindi come una vicenda storica. Ma non come uno qualsiasi tra i tanti saperi sorti nel corso della storia umana via via escogitati dall’uomo per potere abitare il mondo.

Essa si reputa infatti sguardo volto all’intero, al tutto (all’essere): a ciò dunque oltre cui v’è nulla, che perciò da nulla potrà mai essere confutato. Si pensa quindi come il dire l’assolutamente vero, come sguardo in cui la verità si mostra. Unico e solo sapere incontrovertibile.

Ciò ha del paradossale: il sapere rivolto alla verità, che intende essere l’assolutamente stante, irrefutabile nella sua evidenza, si pensa anche come una vicenda storica, quindi contingente.

Avvicinarsi al vero

Ma paradossale è l’intenzione stessa del filosofare.

Il dire, in cui la filosofia consiste, è infatti una parte del tutto: lo sguardo che intenziona il Tutto. Ma la parte non può che rispecchiare il Tutto in parte, ossia astrattamente, nella contraddizione per cui il Tutto appare sì, ma non tutto, non concretamente. La parte in cui consiste lo sguardo filosofico inoltre, non potendo mai vedere il punto cieco in cui consiste il sè che guarda, mai potrà vedere tutto.

La filosofia perciò tende a qualcosa (la verità sul tutto) che mai potrà raggiungere (se non astrattamente, se non prospetticamente). Perciò della verità non può che essere ricerca, al più storico asintotico accostamento al vero.

Dubbio ed enigma

Tendendo all’intero, la filosofia non concede inoltre presupposti.

Perciò li mette in dubbio tutti (lo scetticismo le è essenziale). E il suo paradossale dire in una parte il Tutto la spinge a focalizzare ciò contro cui il dire cozza: i limiti, i nodi aporetici, le pieghe, i margini del reale e il dire.

Qui il pensiero incontra i problemi, le situazioni- limite, le tautologie e le contraddizioni che anche lo innervano.

Qui anche è la filosofia: là dove l’enigma si staglia.

Il filosofo ad esso si accosta, vi si accasa. Talvolta lo scioglie, ma solo per ritrovarne un altro, un poco oltre.

Le altre vie

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Nell’ombra

“Telemaco tu stesso alcune cose penserai dentro di te, altre te le suggerirà il tuo demone“

(Odissea)

Tutto posso essere. Lasciami nell’ombra.

(Jorge Luis Borges)

Dai diamanti non nasce niente

dal letame nascono i fior

(Fabrizio De Andrè)

Nella luce: ombra avvolgente, ombra diffusa

L’istante, nell’atto, si apre in luce.

Luce distesa o guizzante, fioca o abbagliante, tenue o chiara o intensa. Luce albeggiante, o dilagante in mezzogiorno, oppure – residua o maestosa – in crepuscoli e lunghi tramonti, di sole di luna o di stelle o di lampada, sempre noi siamo in una luce, esposti alla luce.

Ma mai nessuna luce è pura luce.

Sempre la luce è avvolta dall‘ombra, o intrecciata con l’ombra.

Un’ombra attornia infatti sempre la luce del mondo in cui sono. In questa ombra sono tutto il passato, tutto il futuro, il simultaneo non colto in luce. Qui – in quest’ombra – hanno la loro custodia le cose nascoste.

Ma nella luce l’ombra anche si infiltra, si insinua e diffonde. L’ombra così si intreccia alla luce, squadernando così, nelle sue luci ed ombre – il mondo – che in tal modo si dispone in chiaro e in scuro, nei suoi colori e contrasti.

E in me pure – nel taglio in cui sono il mio corpo oscuro a me stesso che qui apre il suo spazio – abita un’ombra. Ombra è infatti qui anche il luogo da cui fuoriesco e in cui – nel me stesso profondo a me oscuro – sto in ciò che sono.

In tal senso, dell’ombra io anche sono una parte: la parte in cui il mio in sé corporeo consiste. Avvolto dalla luce, la mia ombra da dentro, a sua volta, avvolge la luce.

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Decifrazioni

Qual è il tuo scopo nella filosofia? Mostrare alla mosca la via d’uscita dalla sua trappola.”

Con che cosa si pagano i pensieri? Credo con il coraggio”

(Ludwig Wittgenstein)

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“Queste foglie che appaiono dietro il vetro della finestra sono in relazione a ogni altro essente e quindi esse, come tali, includono in sè, in un modo specifico, ogni altro essente:… lo includono… come altro, e di esso includono un aspetto finito: sì che in queste foglie sono inclusi …. il cielo e il sole e le più lontane galassie e quelle che la volontà interpretante pone come le opere dei mortali sulla terra e i loro pensieri e impulsi più reconditi: ed è dunque inclusa la totalità dei contenuti degli altri cerchi dell’apparire. E tutto questo è incluso… anche nel rumore della pioggia, nel ricordo del bel tempo di ieri e innanzitutto nella totalità degli essenti che appare nel cerchio orginario dell’apparire e che è l’ambito a cui appartengono queste foglie, il rumore della pioggia, il ricordo del bel tempo di ieri e ogni altro essente che appare. E tutti gli essenti sono inclusi in modo diverso nelle foglie, nel rumore della pioggia, nel ricordo…”

(Emanuele Severino “La Gloria pp.222-223)

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“Nell’apparire della parte più irrilevante del Tutto appare l’infinità delle tracce di ogni altro essente. Che non ci si accorga di questa infinita ricchezza è un limite dei criteri secondo cui si costituisce l’accorgersi”

(Emanuele Severino “La Gloria p.224)

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Tracciamenti intrecciati: assenze

Ogni ente (ogni vibrazione, ogni solidificazione, ogni fluire, ogni cosa dalla più imponente alla più impercettibile; quindi anche io, anche te) è insieme ad ogni altra cosa. Qualunque sia il contesto in cui tale insieme consiste, ogni ente è, in tale contesto, in relazione ad ogni altro (e al tutto).

In questa relazione ogni ente lascia, in ogni altro, traccia, la sua specifica traccia.

La traccia è la presenza dell’altro – di cui è traccia – in ciò che dalla traccia è in tal modo inciso e segnato. Il segno dell’altro (di ogni altro) più o meno profondamente è quindi in me (così come è in te).

La traccia è quindi presente là dove incide, là dove è accolta; ma l’altro, presente in traccia, non è però presente (non è là dove la traccia incide, non è là dove la traccia è accolta) nella sua concretezza. Questa concretezza, l’intimo essere sè dell’altro, nella traccia è sì indicata, ma – tale concretezza – è, in ciò che accoglie la traccia, assente.

Nella traccia, cioè, l’altro è presente, ma ne è presente l’assenza.

Attraverso le tracce, ogni cosa è così in relazione a ogni altra, ma in quanto non è l’altra. Questo non esserlo è la sua traccia, la presenza della sua assenza.

Pulsanti contesti

Tutto il pullulare, il brulicare, il pulsare – in ritmi e stasi, e strati sovrapposti e interferenti – in cui il tutto consiste, tutto questo lascia traccia. Lascia così ogni cosa traccia in ogni altra cosa, in ogni sia pur minima cosa. Dappertutto, infinite tracce disseminate nel tutto

Perciò ogni cosa lascia traccia anche in me. Così come la lascia in te.

Io, tu, le infinite tracce presenti in noi. Tracce di cui non siamo mai la semplice somma, ma di cui siamo, ognuno e ciascuno, contesto specifico, unico irripetibile.

Noi; il contesto delle relazioni che in noi lasciano traccia.

Noi: il contesto, che a nostra volta ovunque lasciamo, in altri contesti, la nostra traccia.

Incontri

In me dunque tu, nell’incontro (o nel non incontro), lasci tua traccia.

Nella relazione tra me e te la tua traccia è presenza in me di un tuo aspetto.

È questo aspetto la traccia: la presenza (in gesto, in volto, in lato prospettico) della relazione tra me e la tua assenza (se tu fossi nella tua concretezza in presenza in me, non saresti più l’altro, non saresti tu, ma solo null’altro che qualcosa di me).

Nell’incontro, presente è la traccia. Nell’incontro si disseminano le tracce reciproche di ciò che nell’incontro si accosta

In me presente è perciò la tua traccia, in cui tu eccedi, assente nella intima concretezza in cui consisti, tutte le tracce infinite che ovunque rilasci,

In me è questa tua infinita assenza (il tuo non essere me, la tua differenza). In te io pure lascio traccia: la mia infinita in te presente assenza (nella quale presente, in traccia, è la tua assenza).

Nella traccia si dà perciò la differenza: l’interfaccia del nostro legame in cui uno non è l’altro, cioè è differente dall’altro, nella separazione in cui siamo insieme (nel contesto).

Enigmi e problemi

Ma le tracce sono enigmatiche.

Indecifrate: perciò sono ambigue.

Indecifrate, esse sono problema.

Nell’enigma ogni traccia è infatti disponibile all’interpretazione. Può essere traccia di questo ma anche di altro, in nesso con questo ma anche con altro. Nell’intreccio complesso in cui la vita consiste, questa oscillazione del significato è, ontologicamente e esistenzialmente, il problematico.

Nel problema, che in tal modo si staglia, è una strozzatura, un sostare dell’inquietudine che si sospende in ingorgo.

Lo sblocco, la direzione (la soluzione) sono assenti. Presenti in assenza di essi vi è traccia. Ma nulla più che una traccia.

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[Riflettendo sui sempre più diffusi glaciali inquieti lucidi universi interiori anoressici… Studentesse, raramente studenti, intelligentissime, sensibilità acutissime, mute disperazioni chiuse in una ascetica corazza che vuole controllo e purezza all’altissimo prezzo di svuotarsi di tutto quanto può scuotere emozioni facendo dilagare l’angoscia per la verità terribile che la lungimiranza dello sguardo da poco aperto sul mondo intravede. In attesa che l’altro possibile sguardo – al di là del nichilismo e il dolore – si apra, nell’invito alla consapevolezza e al morso trattenuto che accoglie la propria impurità. Nella disarmante constatata impotenza a scalfire la vuota corazza. Senza potere indicare strada o dare un aiuto, se non quello della vicinanza nel fare.

Ma anche accogliendo le lente guarigioni delle “mie” anoressiche (di G., di E., di P. … e altre), miracoli che spesso semplicemente, lentamente, accadono, con l’aiuto di altre mani]

***

 Ho voluto sempre che ammiraste il mio digiuno» continuò il digiunatore.

«E noi, infatti, ne siamo ammirati» disse condiscendente il custode.

«E invece non dovete ammirarlo» replicò il digiunatore.

«E allora non lo ammireremo» rispose il custode, «ma poi perché non dobbiamo farlo?».

«Perché sono costretto a digiunare» continuò il digiunatore.

«Ma senti un po’» disse il custode «perché non ne puoi fare a meno?».

«Perché io» disse il digiunatore, sollevando un poco la sua piccola testa e parlando con le labbra appuntite come per un bacio proprio all’orecchio del custode, «perché non riuscivo a trovar il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e gli altri».

(“Un digiunatore” Franz Kafka)

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La mia mente è come la mano che guida un burattino di legno, rigido, tenace. La mano cerca di dar vita a uno spettacolo…; talvolta però incrocia i fili del suo burattino rendendo più difficile il movimento o addirittura li rompe. In questo caso il burattino cade, afflosciandosi su sé stesso e non è più in grado di rialzarsi… se non con l’aiuto di un’altra mano”

( Giorgia C.)

*****

Digiunatori

Non riuscivo a trovare il cibo che mi piacesse”: questo alla fin fine confessa il digiunatore del celebre racconto di Kafka al custode che lo accudisce negli ultimi attimi della sua vita.

Al termine della sua vita che in tale digiuno è letteralmente consistita, al termine dell’estrema tensione in cui tale vita si è consumata (e che il pubblico che, nel racconto, fa da spettatore al digiuno non può che in qualche modo ammirare), il digiunatore questo rivela: qualora un cibo gli fosse piaciuto, qualora qualcosa avesse alimentato il suo desiderio, avrebbe perciò potuto farlo mangiare (e perciò sopravvivere).

Così – in modo analogo nella misura in cui l’aiuto dell’altro è incontro che innesca un desiderare“l’aiuto di un’altra mano”, (così pensa e scrive G., che l’anoressia ha attraversato) è quanto può far rialzare (e far muovere e rivivere) il corpo (il burattino di legno), crollato spossato sotto la troppo rigida guida di una mente che cerca(va) solo adeguarlo alla perfetta esecuzione di una parte in recita in cui non palpita(va)no più, soffocati, relazione e desiderio, che l’anoressia ha (aveva) schiacciati.

Forma folle della purezza

Nell’anoressia è in gioco (anche) tutto ciò cui i due testi alludono.

In gioco sono cioè il senso della vita e la relazione con l’altro. In gioco sono sguardo su sé e sguardo degli altri. In gioco sono il desiderio, nel suo rapporto con il controllo, l’acquisizione e la perdita.

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Se gli umani nascessero liberi non si formerebbero – finché fossero liberi – alcun concetto di bene e di male

(Spinoza, Ethica 4.68)

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Nel mondo in cui siamo, per come ci appare entro l’interpretazione in cui consistiamo, siamo attorniati da cose. In questo mondo accadono eventi che reputiamo essere bene o essere male. Ma – per come intendiamo essere le cose in sè – non attribuiamo loro – alle cose – la responsabilità del bene o del male.  Non è, ad esempio, merito o colpa del sole splendere o non splendere nel cielo; l’uragano in sé non è cattivo ma è ciò che è; la pietra che cade facendo danno lo fa per gravità e non per sua perfidia…

Ciò che non è pensante non è – così pensiamo – imputabile del bene e del male. Non avendo coscienza della sua coscienza (e quindi del suo agire) infatti la cosa non pensante non sa. Nemmeno sa perciò di bene o di male. Materia, pietre e piante, ma anche animali e macchine (nella misura in cui pensiamo non abbiano coscienza di sé e di ciò che fanno) non sono, in sé, né buoni né cattivi (se non metaforicamente, o per nostri propri giochi psichici proiettanti su altro quanto invece ci pertiene). Bene e male appaiono solo nelle autocoscienze, solo entro uno sguardo che li individui o ponga soppesandoli. Solo una coscienza che sappia e possa dire “io” sa (e quindi fa) del bene o del male.

E’ nell’apparire in cui il pensiero autocosciente consiste che si dispongono infatti segni, ossia significati e tra questi il significato “bene” e il significato “male” sono segni-valore. Segni che cioè si stagliano e ergono emergendo da uno sfondo-contesto e prendendo, su un corrispondente disvalore, lo spicco che gli compete secondo polarità oppositiva. Posto e esposto nel suo essere identico a sé, e perciò opposto al suo proprio altro, il segno-valore configura in tal modo il necessario rimando dell’un polo all’altro (quali opposti che si negano l’un l’altro). Per concepire il bene si deve dunque concepire il male, e viceversa. Non si danno perciò bene o male in sè quali determinazioni isolate, ma solo quali implicantesi l’una con l’altra. 

La polarità in cui l’opposizione bene/male consiste non è però immediatamente posta.

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Corpi

Il mondo è corpo.
Corpo esteso nell’apertura dello sguardo in cui l’apparire si mostra e dispone.

Mondo è quindi il concepibile in quanto spazio, nel suo essere consistenza, nel suo prendere corpo.

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Nel mondo, noi siamo corpo.

Non certo il corpo inerte cadavere descritto dal sapere anatomico: quel corpo è soltanto un pezzo di mondo. Nemmeno siamo il corpo macchina, descritto dal sapere fisiologico: quel corpo è un costrutto teorico; per quanto correlativo al corpo vissuto ne è solo ana-logia.

Noi siamo corpo nel senso che siamo corpo vissuto: corpo estensione (nel suo essere laddove mi alloco, da cui mai mi disloco ovunque io sia oppure io vada), corpo proprio quale oscura ombra in cui innanzitutto consisto e pulso, apertura di spazio (il mio spazio) che batte incessante in sé stesso i ritmi del tempo (il mio tempo).

Noi siamo corpo, ossia corpo vissuto: corpo senziente dolente o gaudente. Corpo pensante (e per questo pensato)

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Anche ciò che è altro da noi (noi corpi vissuti, noi i viventi) è corpo: si estende là fuori, occupando il suo posto nel mondo. Ma chiuso e sigillato nel suo in sè segreto.

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Alienazione

Diventare altro: l’impossibile

Ogni essente è l’essente che è.

È cioè ció-che-è. Non è, quindi, l’altro da sé (in una formula: “A é A e non è nonA”).

Ciò implica che l’essente é sé. É sempre sé, quindi mai altro. Perciò mai può diventare altro da quel che è. Se infatti, nel supposto diventare altro, A persistesse diventando egli altro, l’esito del diventare sarebbe ribadire A, che non sarebbe altro. Se invece, nel diventare altro, ad A subentrasse altro, avremmo – nell’esito del diventare altro – un altro, quale successore in una sequenza in cui ad A seguirebbe nonA. Non avremmo che A è diventato – esso A – altro. Avremmo: prima A, poi nonA.

Nel diventare altro l’essente dovrebbe invece nell’esito né essere più semplicemente sé né essere sostituito da altro. Nel risultato (nonA) del diventare-altro, il cominciante (A) dovrebbe cioè confluire nell’altro, senza restare sé stesso, identificandosi così all’altro.

Nel risultato del diventare altro si dovrebbe quindi produrre che “A=nonA”. Ma perciò diventare altro é quindi contraddizione, cioè un impossibile. “A=nonA” in cui il diventare altro consiste sarebbe cioè – come ogni contraddizione, nulla più che segno significante il cui contenuto – in quanto contraddittorio – è nullo.

Altro: altrove

Ogni essente, qualunque esso sia, dal più umbratile e evanescente al più imponente o importante, non è dunque il suo altro, né mai può, il suo altro, diventarlo.

Ma il suo non essere l’altro è, proprio nel suo non esserlo, essere in relazione all’altro. Il non essere nonA da parte di A (e viceversa) implica infatti la relazione, in cui la negazione consiste, tra A e nonA.

NonA, in quanto polo effettivo di una relazione, non è cioè solo assenza di A. É un qualcosa, un universale che, in quanto tale, include ogni possibile sua individuazione: include cioè B, e C, e ogni altra determinazione concepibile diversa da A.

Ciò che A non è, con cui A – negandolo – é in relazione, è quindi un positivo, un altro determinato.

L’altro dunque è. Ma, rispetto all’allocazione di A, non può che essere altrove.

Perciò A, che è quindi insieme all’altro, dall’altro è attorniato.

Piano logico, piano ontologico. L’errore

Se da un lato dunque diventare-altro è impossibile, ogni essente sul piano ontologico – nel quale si dispongono, insieme, e l’essente e il suo altro – é sempre sé.

Anche sul piano logico – nella misura in cui il dire intende corrispondere alla strutturazione dell’essere – gli elementi logici sono perciò ciò che sono.

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Lo scambio simbolico

Nelle società arcaiche – questo secondo molti studi, in primis il Saggio sul dono di Marcel Mauss, emergerebbe dai dati antropologici – la forma originaria della relazione sociale sarebbe lo scambio simbolico in cui il dono consiste.

Sarebbe cioè il dono, ossia il dare senza contraccambio, ciò che istituirebbe originariamente i rapporti sociali. Su di esso – prima che su qualsiasi altra forma di scambio – si innesterebbe cioè il legame sociale. Non l’utile, non il baratto né lo scambio di merci o di moneta, non la ratio calcolante, non il do ut des fonderebbero e reggerebbero dunque le società originarie, quanto piuttosto il gesto, in fondo uno sperpero, del dare in un gesto simbolico, senza contropartita apparente e immediata, in cui il donare consiste.  

Donata – questo attesta l’osservazione dei comportamenti in alcune società primitive – spesso è un’eccedenza, magari dissipata nella festa o nella sfida simbolica dei potlach, tesi a esibire potenza e magnificenza del donatore, descritti da Boas. Ma donato può essere peraltro anche quanto sarebbe al donatore utile o magari indispensabile. In entrambi i casi il senso del gesto è che, senza esplicita richiesta o garanzia di contraccambio men che meno di contraccambio immediato, chi dona depone le lance e si espone cedendo qualcosa di suo o di sé nella perdita di quanto è sua forza o quanto potrebbe dargli forza. Indebolendosi dunque e rafforzando, nel consumo o nell’acquisizione, chi il dono riceve, il donatore si rende apparentemente più inerme, mentre ll destinatario del dono è valorizzato riconosciuto degno del dono ed è rafforzato da quanto riceve.

Ma il destinatario del dono non è solo fruitore avvantaggiato del gesto, men che meno passivo fruitore. Nel gesto è coinvolto e anch’egli è in gioco, preso nella rete che, col dono, anche su di lui si tesse. Il donare non è cioè mai un puro e semplice dare: è, per quanto apparentemente unilaterale, in realtà una forma di scambio. Il fruitore deve infatti, anch’egli deposte le lance, per lo meno riconoscere il gesto del dono e, in risposta, il dono deve mostrare accettarlo. Già nel cenno di accettazione si avvia l’intreccio di una relazione. Nel cenno può venire il ringraziamento. Può venire l’esigenza di un successivo ulteriore dono di contraccambio.

Nel donare è cioè proposto un vincolo. Nell’accettazione del dono questo vincolo è stretto nel suo nodo. Da qui si diparte e si sviluppa vicenda.

Il potere inerme del donatore, che in ogni donare si esprime, apre così una convivialità. E la probabilità di una restituzione, di un contraccambio. Cui seguiranno perciò altri doni, vicende, altre relazioni sociali.

Nell’età della merce, l’arcano del dono

La pratica sociale del dono è dunque arcaica, radicata nelle pratiche umane istitutive della relazione sociale.

Anche oggi, per quanto edulcorata e subordinata alla forma imperante della merce, è più e altro che una semplice consuetudine o un modo di esprimere gli uni verso gli altri buoni sentimenti. Non è solo (anche se è pure) semplice prassi sociale attinente agli usi (dei doni per le occasioni e le feste) e la generosità individuale. Non è solo modo per dare per qualche motivo a qualcuno la piacevole sensazione del ricevere un dono portando l’attenzione su sé di chi il dono lo fa. Ne è prova il fatto che anche nel più ovvio prevedibile e banale dei doni entrano in campo sentimenti complessi, quasi mai riducibili solo a generosità e gratitudine.

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„Il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre
fare l’imbecille, mentre il contrario è del tutto impossibile.“
(Woody Allen)

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Accade… Tra le parole e i convenevoli che si dispiegano nello spazio delle relazioni sociali qualcuno fa una battuta di spirito. Una parola azzeccata, un gioco di parole, un gesto, induce un sorriso (o un ghigno), magari fa prorompere una risata. Qualcuno – si dice in tali casi – fa dell’umorismo.

Si insinua allora, o irrompe, un quid che marca la comunicazione. Sia che ciò abbia una funzione eversiva rispetto all’ordine del discorso che si sta articolando o che – come in alcuni copioni sociali è – sia invece magari pure richiesto o previsto, comunque, quando nel discorso in tal modo entra dell’umorismo, nel fluire della relazione una nuova nota suona, si apre uno stacco.

Qualcosa apre un varco.

Dell’altro entra in scena.

O-scena allegria

Qualcuno – interloquendo con altri entro un contesto – con un gesto o a parole, in modo diretto o con più o meno velata ironia, svela allora del mondo, del solito mondo in cui si dipanano i consueti copioni, un lato che stava fuori la scena (in qualche modo perciò lato o-sceno): il lato comico, divertente, umoristico.

Un gioco di parole, un incrocio di significanti in un lampo scoprono allora un nesso tra significati che lo sviluppo del discorso atteso e prevedibile invece tendeva a tenere distanti. Un fatto di linguaggio incrina in tal modo, o scompagina, serietà e posatezze. Qualcosa si mostra, in realtà incongruente ma non poi così tanto, inducente al sorriso o al riso: energie compresse incidono – nel sorriso in un abbozzo di gesto e apertura, o nel riso scuotendolo – sul corpo vivo dei parlanti smossi in tal modo da una energia: si ride.

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Autenticità

Q

Quando ho esaurito le giustificazioni

arrivo allo strato di roccia, e la mia vanga si piega

(Ludwig Wittgenstein. Ricerche filosofiche, §217).

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Nel mondo in cui siamo – sempre più digitalizzato, sempre più infosfera, sempre più “social” – l’esposizione di sè in immagine, negli spazi interfacce in cui le informazioni si fissano e circolano (negli schermi cioè dei vari supporti elettronici in cui proponiamo noi stessi), si pone come un valore.

Da questo valore dipende molto del proprio riconoscimento e successo sociale. E ciò tanto più quanto più ad essere esposto è quanto più riteniamo ci individui, cioè tanto più quanto più ad esporsi è qualcosa che proponiamo come quello che siamo davvero. Tanto più dunque quanto più ad esporsi è ciò che più ci distingue nella nostra unicità irriducibile.

Molto spesso riteniamo ciò debba avere a che fare con la nostra intimità. Mostrarsi anche il più possibile senza veli in quei tratti che intendiamo proporre come ciò che per davvero siamo fa perciò parte del gioco cui la comunicazione in immagine (via social, o sul modello proposto da molti dei format televisivi più nazional-popolari) ci invita.

La civiltà dell’immagine – questo ne consegue – ci chiede dunque e ci induce – così parrebbe – ad essere davvero noi stessi e ad esporsi per quel che davvero si è. La civiltà dell’immagine ci chiede dunque – così parrebbe – niente meno che di essere e mostrarci in autenticità.

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Nella dimensione più profonda che sostiene, irradiandovisi, tutta la superficie in cui si espongono le immagini che depositiamo nel mondo, nella dimensione cioè percepita più intima e nostra e dunque più autentica, alcuni momenti sono vissuti quali istanti estatici.

Quando questi momenti si danno, ci si squadernano rivelazioni. Anche certi snodi in certe relazioni si rivelano come tali figure perfette. Questi sono i momenti e le situazioni in cui sentiamo – nel nostro vissuto più proprio – autenticità e per quanto tali momenti siano rari, sono tuttavia tali da fungere quali poli di espansione di senso in tutto quanto fa loro da alone e in ciò in cui si depositano.

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Inquietudini

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Diventa ciò che sei”

(Friedrich Nietzsche)

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“L’unico modo di andare d’accordo con la vita è essere in disaccordo con noi stessi“ 

(Fernando Pessoa)

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L’attimo – in cui si illumina il presente che via via ci invade e in cui tutta la nostra vita via via si concentra – è sempre attraversato da tensioni e perciò non sosta. Passiamo sempre oltre l’istante in cui – pur sospesi un momento – mai restiamo. Mai acquietati né acquietabili in un approdo, noi siamo inquietudine.

Nella luce dell’apparire – la luce in cui consisto, permanente sfondo – l’accordo col mondo è assecondare questo lento spostamento nel dipanarsi dello spettacolo che si dispiega. Questo spettacolo ci capta. Ipnoticamente attratti in esso, là, un po’ più in là, sempre ci chiama.

La quiete in cui nell’attimo mi poso perciò si smuove. Da questo spostamento io vengo. In questo spostamento io consisto. Qui è ogni tensione, ogni desiderare, ogni vibrazione che muova la mente e i sensi, e anche ogni collasso in trauma. Questa è l’inquietudine che mi pervade.

Noi siamo inquieti. E lo siamo perché vivi. Poichè vivi, i nostri corpo e mente hanno dinamiche e energetiche. Perciò hanno inquietudini. Inquieto è il godimento di esserci qui ora, ma anche la tensione del nesso al prima e al poi inquieta. Nell’inquietudine di cui siamo perciò intessuti la tensione che tutto ciò comporta è, nel fondo, anche la sottile sofferenza dell’essere spinti altrove volendo restare qua e dell’essere qui tendendo altrove.

Questa sofferenza è nel profondo. Più sei perciò profondo e quindi più vai nella profondità che – per lo più inavvertitamente – abiti, più – tanto o poco, ben delineata o vagamente presentita che sia – l’inquietudine, che sempre già c’è, emerge.

L’inquietudine in tal modo pungola, incita, spinge all’attrazione verso il mondo e gli altri. Ma insieme rode, negando sosta in pace e quiete dell’abitare nel puro istante. Per l’inquieto nessuna casa è mai una volta per tutte definitivamente sua, nessuna sosta è definitiva, nessun incontro è per sempre. Purtuttavia l’inquietudine nemmeno lascia che ciò che deve andare vada: nella tensione vibrante e oscillante, in cui essa consiste, quanto va è preso per la giacca, trattenuto. Nell’inquietudine, in ogni provvisoria quiete  raggiunta (in quanto è solo nella quiete che l’inquietudine ha il suo nido), in una sospensione (e)statica – assente la quale ogni tensione perde il terreno su cui poggia – ogni essente è chiamato tirato da una parte ma insieme anche da un’altra.

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Nell’insieme delle tensioni contrapposte, in cui l’inquietudine consiste, un’energia cerca così sbocco, ma non si lascia andare e perciò si accumula e ingorga: inquieta. In tal modo però l’inquietudine, se non lacera, spinge in avanti. In questo senso è radice e lievito di ogni nostro godimento e di ogni nostro soffrire. Archi tesi, concordanti discordanti nel vibrare di forze contrapposte – quali nell’eracliteo tutto fluente che tutto include – gli inquieti solo in tal modo possono scoprire sè.

Io incontro me stesso, tu incontri te, in quel che (nell’inquietudine) ci accomuna. La mia inquietudine e la tua sono sì dunque anche sottile angoscia, che ben conosciamo ma di cui poco parliamo. Ma sono anche intensità e fermento, di cui solo l’inquieto è capace.

Se anche tu tutto ciò lo riconosci tuo, e dunque nelle mie parole (ri)conosci la tua inquietudine, mi comprenderai.

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Spesso il male di vivere ho incontrato

(Eugenio Montale)

Ostaggi

Piacere (nel senso epicureo dell’essere avvolto da un sentire in accordo a me stesso, o nel senso dell’essere in spinoziana letizia nella potenza del sè) e godimento (che è quanto il desiderio agogna, ma che al desiderio si oppone in quanto nella frenesia dissipante e stordente in cui il godimento consiste, il desiderio si spegne o attutisce) non sono esattamente lo stesso. Entrambi però (tanto quanto dolore e tristezza peraltro) mi appartengono.

Perciò – differenti tra loro sì, ma non separabili – piacere e godimento si intrecciano, sovrappongono, annodandosi in grumi difficili a sciogliersi.

In tal modo il piacere è per lo più commisto a tensioni, al dolore che nel godimento non stacca mai del tutto la presa. Non è raro, per questa commistione, che il desiderato deluda.

Perciò pare talvolta siano perse, nei comportamenti, le istruzioni per l’uso. Perciò quasi mai un fiuto sicuro guida diretto alle mete, che la commistione di godimento e piacere confondono.

Non solo si procede perciò spesso a tentoni, ma si insiste e persiste, troppo spesso – in una ricerca iterata sempre di nuovo (al più variante sfumature di modi) – proprio là ove in fondo sappiamo non esserci quanto davvero (il piacere, la gioia) dovremmo cercare.

Tutta questa compulsività, tutta questa fatica, tutto questo impiego di tempo, tutto questo insistere – testardi – proprio là dove esperienza e logica ci hanno invece già ampiamente insegnato esservi piuttosto delusione e dolore sono, almeno apparentemente, non senso: cieca spinta a dissipare sè o aspetti importanti del mondo del sé in coazioni fini a sè stesse, in direzione altra da ogni consaputa saggezza del proprio bene.

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(Relazione tenuta al Festival della Filosofia di Ischia 25.9.2021)

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Una notte, Zhuangzi sognò di essere una farfalla che volava leggera e spensierata. Dopo essersi svegliato era confuso, si domandò come potesse determinare se era veramente Zhuangzi quando aveva appena finito di sognare di essere una farfalla o una farfalla che aveva appena iniziato a sognare di essere Zhuangzi.

Ma essere la farfalla o essere Zhuangzi non è lo stesso.

(storiella taoista)

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Se per universo si intende lo spazio cosmico (inclusivo di tempo, energia, materia, ecc…), universo è la totalità della natura, il contenitore unitario di tutte le molteplici cose che esistono in esso, le quali ne fanno tutte parte e dunque sono le sue parti. Rispetto a esse parti l’universo è dunque la totalità che le comprende, il loro insieme.

Nell’UNI-verso è dunque incluso tutto quanto appartiene alla natura (intesa come il riscontrabile in modo sensibile, soggetto alla trasformazione), al divenire. L’Uni-verso è quindi innanzitutto quanto in esso appare, e che quindi ne costituisce il verso, il visibile. Ma poiché il visibile implica l’invisibile (l’in sé di quanto appare, le leggi operanti nell’universo…), in quanto nell’universo c’è tutto, l’Universo include anche le sue leggi, e l’in sé di ciò che appare.

L’universo può perciò essere inteso, da un punto di vista logico, come la totalità oltre cui, di fisico naturale, non c’è nulla.

Noi questa totalità la possiamo e dobbiamo concepire, pensare.

Ma non lo esperiamo.

Non possiamo infatti averne esperienza effettiva. L’esperienza dovrebbe infatti l’universo poterselo porre di fronte, ma allora lo sguardo sarebbe esterno al tutto e l’universo non includerebbe tutto perché non includerebbe lo sguardo che lo vede.

La totalità in cui l’universo consiste è dunque una costruzione logica, un’idea, un costrutto mentale.

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La nostra esperienza immediata relativamente allo spazio che pensiamo essere l’universo, l’evidenza che abbiamo di fronte (e sulla cui base costruiamo l’idea dell’universo), è invece quella di un orizzonte che si dispiega di fronte a noi secondo la prospettiva di un punto di vista.

Anche questo orizzonte, come l’universo, è uno e unico ed è spazio che include tutto ciò che ne fa ed è parte.

Nell’orizzonte aperto dalla prospettiva del punto di vista in cui l’esperienza immediata si dà, il dispiegato in esso, che è un universo, si struttura secondo un ordine che dipende dall’angolazione da cui l’orizzonte si apre e rispetto al quale si disloca tutto. Orizzonte contornato ai lati dell’angolazione dal limite di un orlo sfumato. Orizzonte indefinitamente (o infinitamente?) dischiuso in profondità di fronte.

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Corpo psichico

Inghiottire/espellere

In origine, neonato, il corpo-psiche inghiotte e espelle.

Vuole cioè riempire sè assimilando il vuoto e le cose, che intorno incombono. Vuole rompere penetrandovi la barriera che comprime, allontanare quanto impedisce il varco per il suo respiro e la sua potenza. In ciò (l’adattamento evolutivo certo ha la sua parte) cerca e ottiene spesso piacere.

Per provare piacere e cacciare dolore e fastidio perciò introietta o butta fuori, assimila o distrugge, avvicina o allontana. Il buono va inghiottito, assimilato; il cattivo espulso, sputato, distanziato.

Se Eros (la pulsione di vita) è la forza che aggrega e Thanatos (pulsione di morte) quanto spinge alla separazione dell’aggregato nella nostalgia di un’origine in cui ogni tensione è placata, Eros spinge perciò a inghiottire e a fondersi, Thanatos a cacciar fuori ogni insidiante disturbante eccitante.

Su questa base si innesta tutto quanto ha che fare col corpo psichico.

Su questa base il corpo psichico diventa sé: linguaggio in cui deposto è il suo pensiero, gesto, erotica.

Parola

Il linguaggio – che sempre mi precede e apprendo – nello stesso medesimo atto apre il mondo e mi apre al mondo disponendomi (nel pronome “io”) quale il corpo psichico che mi dico, e dunque perciò vivo e sento, mio.

Linguaggio è quindi la sintassi in cui consisto, cui nucleo è il nesso essenziale in cui si articola il giudizio. In tal senso io sono (anche) parola. E se Eros – a questo livello – unisce le parole, dispone nessi e nel giudicare dispiega l’affermazione, mentre Thanatos separa nella negazione, ciò non comporta che Eros sia sempre bene e la morte (questo è Thanatos) sia sempre male. Non sempre l’affermazione (Eros) è bene. Non sempre la negazione (Thanatos) è male. Il gioco delle forze è in realtà assai più complesso, perchè la funzione del giudizio (sia che sia affermazione sia che sia negazione) arricchisce infatti comunque le possibilità di esperienza in cui l’io consiste (anche solo per il fatto che, se la negazione consente di allontanare pericolo, salvaguarda il mondo e lo arricchisce delle difese che così l’io appresta).

Anche il pensiero – come ogni gesto – sonda quindi (mentalmente e quindi in forma particolarmente cauta e protetta) il fuori. Prolungando la funzione degli organi di senso nella loro capacità di protendersi verso il fuori investendo energia nei loro sensori più esterni, i quali vengono così in tal modo cautamente rivolti al mondo per essere immediatamente retratti alla minima avvisaglia di un qualche pericolo, anche il pensiero a suo modo è, volto verso l’esterno, un assaggiare per poi ritrarsi. In questo ritrarsi è possibile il differimento dell’azione nel trattenere la scarica. Diventano perciò possibili la sosta, la pausa, l’attesa, nelle quali il giudicare può ponderare circa l’azione motoria, da attuare o meno.

Qui, su questa base, assieme al si, si insedia il no. Il giudizio può articolarsi. Si dà linguaggio.

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Quanto credo di essere, fare, pensare (quindi ciò che io sono) implica (credere) non essere tutto ciò (l’essere, il fare.il pensare) che, eccedendomi, dunque non sono.

Ciò che sono – l’io e il corpo che sono – é tale in quanto altro non sono. Senza il non essere ciò che non sono, non sarei cioè ciò che sono. Senza la negazione, senza il mio dire di no (a quanto peraltro non mi é dunque estraneo) non avrei determinazione e figura.

Non sarei il mio nome proprio, ma puro modo (che pure anche sono) della Cosa che incombe.

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Non è mia intenzione…

“Non é mia intenzione offendere”, “La persona del sogno non è mia madre“. Sono questi i due esempi – proposti da Freud in apertura del suo saggio intitolato “La negazione“ – di quanto pazienti possano dire, posti di fronte alla possibilità loro adombrata che l’intenzione fosse di offendere o che la persona sognata fosse la madre.

Le due asserzioni – scelte da Freud quali esempi e in quanto tali da lui considerate – per quanto possano apparire banali e sincere nel dire quanto intendono dire, sono però – a suo avviso – assai più interessanti di quanto non sembri. In quanto il primo paziente dichiara infatti di non avere intenzione di offendere, il secondo di non avere sognata la madre – su questo Freud appunta la sua e la nostra attenzione – entrambi stanno negando.

Questo è secondo Freud l’interessante: che la loro parola si erge nel segno del non.

E il non (il no) non è mai banale: è opposizione, barriera, difesa. Parola che intende impedire, in quanto negazione, un’adesione a quanto è – appunto – negato.

Lo sconcertante

Per Freud tuttavia – su questo appunta attenzione, questa è la sua tesi – in queste situazioni non è in gioco solo la volontà distanziante incarnata nel non, ma lampeggia piuttosto – in quel non – una verità più profonda, seppur sconcertante.

In entrambi i casi esemplificati – così come in tutti i casi analoghi – la negazione va infatti, secondo lui, in realtà trascurata, e l’attenzione va focalizzata invece sul significato puro e semplice di ciò che viene negato, nel cui apparire alla coscienza – seppur negato – sarebbe invece racchiuso il vero senso profondo di quanto nel dire negante si mostra. “Sarebbe mia intenzione dire qualcosa di offensivo (ma sto dicendo che non ho questa intenzione)”; “Mi è venuta in mente mia madre (ma escludo sia lei)”: questo il vero senso di quanto i due pazienti esprimerebbero davvero nei loro dire.

Secondo Freud – questo lo sconcertante – in realtà ogniqualvolta qualcuno nega qualcosa (e non solo nei due esempi considerati) ciò che sta accadendo effettivamente é anche altro e per comprendere completamente cosa accade davvero deve intervenire un’interpretazione che fondamentalmente capovolga il significato in cui la negazione consiste, intendendola piuttosto come intenzione inconscia di portare a manifestazione l’opposto di quanto nella negazione è esplicitamente detto (negato).

Tale opposto – secondo Freud – è nell’inconscio ben vivo. Balena perciò, come qualcosa che nel profondo si è, si pensa, desidera – seppure a parole sia negato dall’io.

La Cosa

Questo modo di vedere le cose, ma innanzitutto di ascoltare le persone, che Freud applica in analisi (e al limite ci suggerisce di adottare in genere, se vogliamo guardare al di là delle apparenze) può sembrare, di primo acchito, un modo malevolo, irrispettoso e anche un po’subdolo, di porsi nei confronti del dire altrui.

Un modo tale da poter tendenzialmente attribuire a chiunque qualunque pensiero o intenzione, e dunque di renderlo responsabile di qualunque pensiero e cosa

Con un gesto interpretativo apparentemente arbitrario, su chiunque si può insinuare abbia qualunque intenzione o pensiero, perché tutto gli è attribuibile: sia quanto afferma aderendovi, sia quanto – negandolo – esplicitamente disconosce e rifiuta, ma disconosce e rifiuta proprio perché gli appartiene (per di più nella dimensione più intima e profonda di sè, quale è il proprio inconscio)

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Indizi sul corpo

download (3)Il corpo che io sono parla.

Nel suo codice (da decifrare) parla agli altri. Nel suo codice (da decifrare) mi parla, parlando a me stesso e a sé stesso. Per sensazioni, stimoli, sintomi…

Sintomi

Quando si insedia la malattia, una nuova presenza, non voluta, si colloca senza preavviso all’interno del corpo. Qui il suo lavorìo sensibilizza zone somatiche prima sostanzialmente inavvertite. Qui vi disloca per lo più il dolore, in varie forme e intensità.

La malattia richiama così – mettendo in allarme i sensi e risvegliando propriocezioni prima appena adombrate – l’attenzione sul corpo, al punto da rivelarcelo scomodo. Il senso interno che ausculta – per lo più in modo attutito – il corpo, ora amplifica la presenza del punto o la zona che la malattia ha invasa.

Innervazioni, viscere, flussi, punti di giuntura, tensioni muscolari: i luoghi e eventi del corpo che sono ora, nella malattia, sensibilizzati sono dei dentro. Ma – nella condizione in cui vivere il proprio corpo come insidiato e aggredito da un male ci getta – si percepiscono come se fossero fuori.

Quando si insedia la nuova presenza, ci si percepisce in modo diverso, come un altro da sé: come alienati.

Malattia è perciò (anche) esperire il proprio corpo in modo espropriante e dolente.

L’intruso

La malattia trasforma così innanzitutto il rapporto col corpo. Porta fuori – all’attenzione del sentire sé stessi – quel che era, dentro, attutito e inavvertito.

Ciò che si è, la propria identità, prende così spicco in un modo inconsueto e sgradito. Nella distanza che si apre tra il corpo di chi se lo sente malato ed il mondo ad esso esterno che è del tutto estraneo alle percezioni che invadono lo spazio circoscritto del sè, l’io che si è si racchiude nel percepire in sè un intruso.

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La luna delle notti non è la luna 
che vide il primo Adamo. I lunghi secoli 
della veglia umana l’hanno colmata 
di antico pianto. Guardala. È il tuo specchio

(Jorge Luis Borges)

Se la filosofia è apertura di un sapere universale – tale dunque, nelle sue intenzioni, da valere per tutti e chiunque – d’altro lato (è dato di fatto, contingenza storica) i filosofi per secoli (fino al Novecento almeno) sono stati, fatta salva qualche rara eccezione, tra cui non può non spiccare la figura di Ipazia, sempre dei maschi.

Anche la filosofia è stata perciò, forse inevitabilmente, sin dall’inizio greco anche una tra le pratiche in cui la cultura patriarcale e maschio-centrica – su cui l’Occidente (e non solo l’Occidente), si è incardinato – si è espressa. Donne capaci di filosofia sono sempre esistite, ma troppo spesso i ruoli subordinati a cui sono state storicamente costrette ha implicato la loro esclusione dalla formazione culturale e troppo spesso quelle che hanno prodotto pensiero sono state ridotte al silenzio, dimenticate, perseguitate (esemplare ancora una volta la vicenda di Ipazia). Al più è stato concesso loro spazio nei territori di pensiero adiacenti al logos, vicini al sacro, quali la mistica.

Anche il pensiero filosofico quindi si è sviluppato sotto il segno del patriarcato, nel cui gesto di potere la sottomissione ha implicato esclusione della voce di chi è sottomessa. L’esclusione – come ogni esclusione – ha implicato una reticenza ed un residuo. Un altro lato dell’umano, definito come il femminile (posto come tale peraltro, e non è irrilevante, quale categoria definita da un pensiero maschile), non ha perciò avuto spazio per la propria voce. Costretto perciò a una reticenza, è persistito come residuo che proprio per questo ha elaborato – nel corso dei secoli – dinamiche sue proprie, seppure per lo più sotterranee. Il femminile, l’escluso, è perciò rifluito e fluito in una vita carsica che, nonostante la riduzione al silenzio e grazie al residuo, lo ha configurato peraltro come mai riducibile davvero agli schemi impostigli. In questa irriducibilità l’escluso, il femminile, è stato perciò inteso anche come inafferrabile, forza intorno la quale perciò i conti non tornano. Elaborato perciò dagli schemi dominanti sotto il segno della mancanza di un senso del tutto riconducibile alla chiarezza concettuale, lo si è interpretato secondo il paradigma della debolezza, dell’irrazionalità. La donna è stata concepita sul modello maschile, quale mancante di qualcosa che il maschile invece possiederebbe ed avrebbe. In tal modo anche esorcizzato nella sua differenza, il femminile è così anche stato caricato di una inquietante incomprensibilità, su cui sono stati ritenuti opportuni controllo e dominio.

Ogni rimosso, ogni residuale escluso tuttavia peraltro sempre preme ad emergere. Non resta mai inattivo, come mai è rimasto inattivo il femminile. Proprio perciò il maschile si è imposto quale potere che, autodefinitosi quale maschile, ha insieme configurato come riassumenti l’umano i tratti ritenuti da tale potere suoi propri in quanto emergenti e caratterizzanti. Nel residuo escluso sono così rimaste coinvolte natura, corpo, terra, generatività, accudimento, ciclo, luna, sessualità polimorfa… e la donna, nella misura in cui viene a tutto ciò associata. In questo quadro la differenza fisiologica, incarnata e corporea, è interpretata dal maschile neutralizzandola e subordinandola al modello costituito dal corpo maschile, quindi per sottrazione, come mancanza.

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